31 dicembre 2008

Folklore andino actual

La Tigresa de Oriente canta Burundanga


La Tigresa de Oriente canta Perucumbia


My Conejitos - Los conquistadores

ChUnTaro Style

Resistere,resistere,resistere


30 dicembre 2008

Perdita assoluta


La scienza che emigra

Studiano i meccanismi dell’universo, scavano dentro la materia oscura, inseguono raggi X ed emissioni infrarosse, cercano nella volta celeste le risposte alle domande primordiali dell’uomo: da dove veniamo?, chi siamo?, dove andiamo? Cosine così, tra tecnologia e filosofia. Ricerca pura. Un «lusso» per l’Italia, che certe risposte ha smesso di cercarle. Eppure senza alzare gli occhi al cielo si resta indietro in molti campi, perché per osservare stelle e galassie si usano strumenti che hanno applicazioni infinite: nella diagnostica medica, nelle analisi dei materiali, nei controlli di qualità dei prodotti industriali, nella ricerca della contaminazione dei cibi e dell’acqua, nella tecnica forense...

Che deve fare, allora, un giovane astrofisico italiano? Se è bravo ed ha buone presentazioni prende un aereo e atterra a Monaco di Baviera, dove la fisica è un pallino. Garching, cittadina di 16 mila abitanti a nord di Monaco, ha perfino messo nel suo stemma un reattore nucleare, impianto che esiste dal 1954 per fini di ricerca. Attorno al reattore è poi nato un polo tecnologico e dell'innovazione che fa crescere l'industria, arricchisce la Germania, attira l'interesse del mondo.Vista da qui, la fuga di cervelli dall'Italia è un esodo lento e ordinato. Sui 76 istituti sparsi per la Germania, la prestigiosa Max Planck society a Garching ne ha installati 4 (fisica extraterrestre, fisica dei plasmi, astrofisica, ottica quantistica) in un bellissimo multicampus per servire il quale c´è una metropolitana nuova di zecca. Gli italiani sono un centinaio, quasi il 15%, oltre a quelli del Politecnico (sempre a Garching) e degli altri istituti della Max Planck di Monaco. «A ben guardare l’emigrazione intellettuale non sarebbe un dramma, si va all'estero per ampliare i propri orizzonti, acquisire nuove conoscenze. Il problema è che non c’è ritorno», dice Giovanni Cresci, fisico di Firenze in forza all’istituto Max Planck per la fisica extraterreste. Allora, sempre vista da qui, la fuga ha due volti: quello dei «fuggitivi» che di tornare in Italia non hanno più voglia neanche se ce ne fosse la possibilità e quello di chi dà loro «asilo». Nulla di umanitario, ovviamente, questi sono «migranti» d'eccellenza aiutati dalle loro famiglie, ragazzi formati nelle tanto bistrattate università italiane che nella ricca Baviera trovano fior di accademici disposti a valutarli con un unico parametro: il merito.

Oggi il paese della Merkel dà alla ricerca il 2,6% del Pil contro lo 0,9 (che il prossimo anno scenderà allo 0,7) dell'Italia ed entro il 2015 conta di arrivare al 10% del Pil, comprendendo anche istruzione e formazione. Un investimento sul futuro colossale, che impiega in modo rilevante anche le intelligenze dell'Italia.

Benedetta Ciardi è una di queste: vincitrice del Marie Curie Award, prestigioso premio europeo per giovani talenti delle ricerca, astrofisica fiorentina, ha tentato uno sbocco in patria «ma quando ho capito come funzionavano le cose, quando ho visto che un curriculum di tutto rispetto vale per il 10% nella scelta di un ricercatore, quando sai che ogni concorso è una perdita di tempo perché ha un vincitore predestinato, bè scappi». Rientrare? Ci ha provato, all'inizio della sua avventura tedesca, ma invano. Adesso che il suo curriculum glielo permetterebbe non ci pensa proprio: «Gli anni passano, la carriera avanza. Sono al Max Planck da otto anni, ho raggiunto il livello di professore associato con un contratto a tempo indeterminato, lavoro in un ambiente libero dove niente è impossibile. Rientrare è l'ultima cosa che mi passa per la testa». Anche Marcella Brusa, romagnola di Santarcangelo, laureata in astronomia a Bologna, ha avuto, ed ha, nostalgia di casa. «Ma poi pensi alla situazione del nostro paese e ti consideri fortunata: possibile che in Italia le cose non siano mai stabili?, che se cambia un governo cambiano le regole, i punti di riferimento? Troppa incertezza, insomma. Qui, invece, sai in quale ambito ti muovi, cosa puoi fare e cosa no». Di fatto, per chi riesce ad entrare nel giro Max Planck, la ricerca non ha limiti: gli strumenti di osservazione (i telescopi nello spazio) e di calcolo sono il meglio che un ricercatore possa sognare. Le missioni di studio e lavoro all'estero sono all'ordine del giorno.

Gli stipendi? Alti: la prima busta paga di un ricercatore è di 2100 euro al mese, il 50% in più che in Italia, di un associato 3000. I precari (praticamente tutti i ricercatori, dottorandi e post doc) hanno la stessa protezione sociale dei tedeschi. A queste condizioni logico che si smetta di cercare in Italia. Basta adattarsi, e non è sempre facile, alla disciplina bavarese e alla sua maniacale efficienza. È questa l´esperienza fatta da Claudio Cumani, fisico triestino di 45 anni, a Monaco da 15 che lavora come informatico in un istituto di ricerca europeo, conserva la passione per la politica (è stato 9 anni segretario della sezione Ds) ed è presidente del Comites, l´organismo di rappresentanza dei 72 mila italiani residenti nella circoscrizione di Monaco. Cumani sviluppa software di controllo dei ricettori di immagini attraverso i dati dei telescopi. Se telecamere e fotocamere digitali migliorano ogni giorno le prestazioni, è grazie a queste ricerche. «Ho cercato sbocchi nell'industria privata in Italia. Quando leggevano il mio curriculum la risposta era: “Lei è troppo qualificato”. Così mi sono messo il cuore in pace, ho sposato una tedesca e qui sono destinato a restare. Ma non mi sfugge quello che succede in Italia. E mi preoccupa una classe politica che vede la ricerca come spesa improduttiva e una classe docente che pensa solo a se stessa. Qui sto bene, il paese funziona a meraviglia, ai nostri livelli la vita è semplice. Eppure mi rendo conto che non sono più italiano e non sarò mai tedesco».

Augusto Giussani, invece, in Italia aveva centrato il suo obiettivo: dopo il dottorato conseguito in Germania ha vinto un concorso per ricercatore a tempo indeterminato. È un fisico che si occupa della dose e degli effetti delle radiazioni sul corpo umano, radioprotezione, medicina nucleare. All'inizio dell'anno ha lasciato la sua (invidiabile) posizione in Italia per tornare a lavorare all'Istituto di Radioprotezione di Monaco. «In Italia - spiega - manca una cultura scientifica. La ricerca è vista come impedimento. Gli investimenti pubblici fino a qualche anno fa non erano tanto inferiori rispetto alla media europea, quello che faceva e fa la differenza sono gli investimenti privati. Se a questo si unisce il fatto che nell'università, come nel resto della società italiana d'altronde, ogni cambiamento viene interpretato come rischio e non come opportunità, e che tagli e ipotesi di riforma impoveriranno gli atenei, ho preferito lasciare il mio posto a Milano». Per la ricerca molto meglio l’ambiente dinamico e stimolante di Monaco. Del resto da qui con un’ora e mezzo di volo (biglietto low cost a 40 euro) si torna a casa. Sui migranti della scienza il viaggio non pesa più di tanto: invece pesa, come un macigno, sull'Italia.

Non spingere, che c'è spazio per tutti


Meduna. Quella voglia di essere friulani. Per gli «sghei»

Se il Piave mormorasse racconterebbe di acque né calme né placide. Di una terra silenziosa e inquieta che muove verso lo “straniero”. La Marca Trevigiana va a Pordenone, la razza Piave è bastonata dai tempi, anche se il fiume ha un altro nome, il Livenza, e il fiume è importante in questa storia: è un rifugio, un alibi, una speranza impossibile, quella dell’acqua che risale la montagna. La crisi è qui, è arrivata come un tarlo a rodere questi legni, a chiudere mobilifici, a logorare le certezze di un posto ricco, per definizione ma non per sempre. L’elenco delle ragioni per votare Sì, domani, a Meduna di Livenza, due mila e 960 veneti doc che vogliono diventare friulani, è tutto quantificabile, si può mettere in colonna, si tira una riga: «Vivere di là costa 600 euro a famiglia in meno».

Di questi tempi, per soldi si può anche rinunciare ad essere veneti e far finta di essere furlàn. Il fiume e la tessera Il Livenza è limpido, di un blu perduto. Pescoso di trote e cavedani. Vien giù dal Friuli, segna il confine, curva attorno a Meduna (che poi è il nome di un affluente del Livenza) e chiude a Caorle, buttandosi nel mare dei veneziani. Loro dicono: «Siamo a sinistra del fiume, come tutti i friulani». Ecco il rifugio e l’alibi. Tornare a monte. Non c’è storia per questa gente veneta fin dai tempi di Omero (gli Eneti), non c’è accento in questa rivendicazione, «io non capisco niente quando parlano quelli di Paisano», fa Nadia: c’è solo il fiume. E i soldi. La tessera magnetica è piccola come un bancomat, il benzinaio la inserisce e certifica la residenza in Friuli: così il carburante costa 17 centesimi in meno ogni litro. Per un pieno da 60 euro se ne spendono 50. E per un pieno con lo sconto, «per un contributo sulla prima casa di 15 mila euro - la lista è di Marica Fantuz, la pasionaria dei referendari - per un assegno di maternità più robusto (9 mila euro per un parto gemellare), per rinunciare al ticket sulle medicine, per l’assicurazione auto scontata», ecco, per tutto questo si cambia casato.

La crisi
Nadia Saccilotto da 40 anni è nella trattoria Beppa, battezzata dalla suocera che gestiva il ristorante sulla strada fra Motta e Meduna. Adesso è Nadia che prepara la porchetta, la serve, sorride. Faceva novanta coperti a pranzo, due turni da 45 (il completo): quest’autunno apparecchia per 30. «Si fermavano camionisti, operai, tutti: circolavano 4mila lavoratori fra Motta e Meduna. Per i finanzieri c’erano cotechino e purè, ma la multa - se la meritavo - arrivava puntuale». Una volta s’è presa sei mesi con la condizionale: «Mancava uno zero in fattura, una svista». Anche adesso mancano numeri: «Mio figlio Enrico fa il rappresentante » e ogni sera aggiunge un capitolo all’inventario della crisi: «Plastica, legno, mobili: questi chiuduno, quest’altri non spendono, quest’altri ancora sono tutti in Cassa integrazione ». Nadia adora Kennedy (tiene lo spillo sul bavero) e vota la Lega perchè le sembra «che stia facendo qualcosa per la gente». Compreso il voto di domani, non voluto ma cavalcato, ovviamente. È lei che rivela: «Il friulano non lo capisco, parlano chiuso, già a Paisano non si capisce niente». Anche a Paisano la crisi morde, perfino di più. Questi continui referendum non sono migrazioni verso terre fertili ma rivendicazioni di sconti, loro li chiamano «i diriti», lasciando cadere la doppia “t”. Quando si è costretti a fare i conti è insopportabile che a poche chilometri ci sia chi - per solo diritto di nascita - possa pagare meno tasse. Questi sono i tempi, e per Natale è pronto il regalo: 60 mila contratti a termine non saranno rinnovati, si allarma Emilio Viafora, segretario regionale della Cgil. Sulla Tribuna, il quotidiano della Marca, il leader degli artigiani Pierluigi Zambon e l’assessore alle attività produttive Vendemiano Sartor si spronano l’un l’altro a fare la propria parte, sul tema: chi ci mette anima e sangue contro una recessione che toglie fiato al polmone d’Italia? Non è solo la fisiologica scadenza dei contratti: nel 2009 si prevede il 39% in meno di assunzioni “solide”. Non s’investe, non si scommette, nell’ultima stagione le agenzie di lavoro interinale hanno “spostato” quasi sei mila operai in meno.

El fiòl
Quando parlano guardano dritto in faccia, alzano il tono sul finale della frase. «Perché mi fiòl deve pagare 15mila euro in più per farsi la casa? Perché là le scuole sono gratis?». Vincenzo Bidoia detto Cino picchia con il dito sul tavolo del bar e fa domande semplici. Accantoa lui, Mario Griguol ripete il mantra: «Serve il federalismo fiscale». Ne sono convinti tutti, cittadini, sindaci, ovunque. Questo èlo scopo del voto: nessuna radicata convinzionefriulana, ma la voglia di sentirsi uguali al vicino di casa “fortunato”, e -di rinterzo - nutrire il partito del federalismo. Il senatore della Lega Giampaolo Vallardi spera nell’effetto domino, «che trascinerà tutti i comuni di confine». È il massimo risultato, perché all’atto pratico il voto - vinceranno i Sì, per distacco - sarà inutile, in quanto il consiglio regionale veneto non legittimerà mai la secessione (Galan è furioso, «quel comune resterà veneto finche io sarò in vita»). È il passaggio obbligatorio, così come l’accettazione della nuova regione, che offre sponda ai medunesi: il governatore del Friuli Renzo Tondo, Pdl come Galan, tace ma parla per lui il presidente della provincia di Pordenone, Alessandro Ciriani, che si allarga: «Le richieste e gli interessi dei cittadini vanno considerate con favore».

L'uva a bacca nera Al bar Fasan di Mure, frazione di Meduna, Tiziano chiede un caffèe inorridisce quando Luigi lo serve “nudo”: «Noooo, coreto!». Luigi corregge anche questo, mentre Tiziano manda zaffate di un certo pregio, dopo un pomeriggio di rossi corposi e qualche ritocco con la grappa Storica Nera, «roba da meditazione, per quanto intontisce», fa l’oste. È un distillato di uve a bacca nera, scende giù perfida come l’inganno, armoniosa e rotonda, vellutata, ma viaggia in gola a 50 gradi. Tiziano lo sa, per questo prima di rincasare ammazzal’alito col caffè. Corretto, però. «Siamo razza Piave, non vogliamo pagare più degli altri». Al bar sta arrivando Marica Fantuz per “comiziare” davanti a cinque fan. Si è fatta il porta a porta, Marica. Il Livenza mormora: si candiderà a sindaco, monetizzando questo successo. Lei argomenta con grandi e piccoli numeri: «Le imprese in Friuli hanno finanziamenti agevolati, con un tasso fisso del 2%, e molte hanno già traslocato. Andare “per fogli” alla sede della provincia sarebbe più semplice: Pordenone è a 25 chilometri, Treviso è lontano il doppio. Ma lo sapete che una famiglia di Pravisdomini ogni anno ha 600 euro in più da spendere?».

Il paese
C’è il bel campanile, le villette a un piano, un’edicola, due bar,un supermercato: è un paese vero. «No, non importa», suggerisce Katy, frustrando la nostra intenzione di regolare il disco orario: «C’è un solo vigile, e oggi non lavora». Lo sa perché sta in comune, dove il sindaco non si esprime, il vice Gian Franco Spadotto - «l’unico di sinistra in una giunta arlecchino» - insiste sulla neutralità, «prenderà atto dei risultati» e si arrende di fronte gli sghei: «In Alto Adige, in Friuli...arrivano trasferimenti maggiori agli enti locali, e si può riscuotere una grossa parte delle imposte sul territorio, da redistribuire a cittadini e imprese». Per questo Cortina scelse l’Alto Adige (non ci andrà mai,ma intanto da quest’anno agli ampezzani sono arrivati i buoni benzina scontati...). Per questo Sappada votò il passaggio in Friuli. In entrambi casi c’era un richiamo storico (Sappada è geograficamente in Friuli, Cortina è frontiera ladina). «La soluzione politica è avvicinare le condizioni fra le varie Regioni. Altrimenti, a forza di spingersi più in là, finiremo in Slovenia». Qua e là c’è anche chi mostra più convinzione. Emilia Prosdocino è perfino arrabbiata, «fra bollo auto e assicurazione si risparmia un sacco », mentre Siro Ziroldi tardeggia sotto i portici, chiuso dentro il giaccone. È in pensione, la mattina va a spasso, e sta di qua, la domenica va in gita, e va di là. «Siamo già friulani, ho fatto una vita il muratore perfino a Udine, per qualche anno». Perfino a Udine: la gente di paese ha il suo modo di calcolare le distanze. I coniugi De Paoli (Marco e Stefania) proprio ieri erano a Pordenone e «mentre da qui fino a San Donà le strade erano innevate e non si girava, in Friuli l’asfalto era stato pulito in fretta e si circolava». Franco il barbiere che taglia e rade per 11 euro dice che è una cosa seria. L’operaio anonimo che ha due mogli da mantenere, due figlie da far studiare sa che di là «nella busta paga ci sono 100 euro in più, ma non risolvo i mie problemi con queste cavolate». Cino sbatte il bicchierino vuoto sul banco, «ce l’ho su con i friulan...», gli occhi sono lucidi, la grappa brucia, la crisi di più.

29 dicembre 2008

Anno nuovo, guerra nuova


Offensiva di terra al via, l'avanguardia passa il confine

Più di 300 morti negli atacchi israeliani a Gaza.

L'offensiva di terra dopo l'operazione "Piombo fuso" durata tre giorni di bombardamenti aerei, diurni e notturni, è pronta a partire. Lunedì mattina Il settore di frontiera lungo la Striscia di Gaza è stato decretato da Israele «zona militare chiusa».Commando israeliani sarebbero già penetrati nella Striscia anticipando quella che potrebbe essere la fase terrestre dell'operazione, secondo quanto riporta il sito israeliano Debkafile, vicino all'intelligence dello Stato ebraico.Unità speciali israeliane avrebbero colpito numerosi centri di comando e vie di comunicazione utilizzati dalle cellule di Hamas, ostacolandone la reazione; secondo Debkafile tali operazioni dovrebbero intensificarsi nella giornata di lunedì 29, con due obbiettivi principali: segnalare i bersagli principali per le incursioni aeree e aprire la strada ad un eventuale avanzata dei mezzi corazzati.La distruzione delle gallerie che attraversano il Corrodoio Filadelfia - effettuata con bombe a guida laser (sviluppate per colpire i bunker iracheni) - appare come il principale successo dell'operazione, conclude il sito, che si chiede come mai nei tre anni precedenti non si sia fatto ricorso a iniziative simili visto a posteriori la loro fattibilità.Già da domenica testimoni hanno riferito di aver visto decine di carri armati e blindati per il trasporto truppe ammassati in diversi punti del confine con la Striscia mentre il ministero della Difesa ha già richiamato 6.500 riservisti.

Jueces que deben ser juzgados


Cómo tener Justicia con jueces como este!!!?


Una línea de conducta
Néstor Montezanti, quien fue asesor del represor Adel Vilas, afronta un pedido de juicio político presentado por la Unión de Empleados Judiciales. En 2007, la entidad se quejó ante la Corte Suprema por “condiciones de trabajo humillantes y vejatorias” en ese tribunal.

Por Diego Martínez
“La perturbación al orden jerárquico no es tolerable y debe ser sancionada.” Impugnar una designación es “una falta gravísima de respeto al Superior”. “Dejar pasar esa insolencia conduciría a la anarquía.” Tan bellas palabras no fueron escritas a principios del siglo XX por un celador del colegio militar sino en estos días por miembros de la Cámara Federal de Bahía Blanca. El tribunal que declaró inconstitucionales las leyes de impunidad en 1987 es hoy un reducto de empleados aterrorizados y delegados gremiales perseguidos, escenario que derivó en reclamos e impugnaciones. Mientras los trabajadores esperan una respuesta de la Corte Suprema de Justicia, la Unión de Empleados de la Justicia de la Nación presentó un pedido de juicio político ante el Consejo de la Magistratura contra Néstor Montezanti, cara visible de Sus Señorías, quien supo lucir en su estudio un certificado de la “Liga Anticomunista Argentina” firmado por el general Carlos Suárez Mason, comandante del Cuerpo V de Bahía Blanca en pleno apogeo de la Triple A.

Firman la denuncia de la UEJN su secretario general, Julio Piumato, y el de relaciones institucionales y de derechos humanos, Oscar Pringles. Acusan a Montezanti por mal desempeño, violación de los deberes de funcionario público, “una clara actitud antisindical” que en 2007 denunciaron ante la Corte, y “condiciones de trabajo humillantes y vejatorias”. Enumeran abusos de autoridad, prolongación desmedida de la jornada de trabajo, trato despectivo y discriminatorio para con los empleados que desarrollan tareas gremiales (pidió que se excluya a “representantes problemáticamente gremiales” del jurado que analiza exámenes de ingresantes), desequilibrios emocionales que conspiran contra el buen funcionamiento de la justicia, dilaciones y entorpecimientos en causas por delitos de lesa humanidad. Los dirigentes no descartan extender la denuncia a los jueces que adhieren a las decisiones del magistrado.

Como publicó este diario, Montezanti fue reconocido en 1974 en medio del grupo de matones que ocupó la Universidad Tecnológica Nacional y pronto se convirtió en la Triple A de Bahía Blanca. En 1975 el miembro más célebre de esa organización criminal lo propuso como defensor cuando la Justicia lo citó por el asesinato de David Cilleruelo, militante de la Federación Juvenil Comunista acribillado en un pasillo de la Universidad Nacional del Sur. En la causa no consta que Montezanti haya actuado en defensa de Jorge Argibay, que sin abogado y pese a haber disparado ante varios testigos no estuvo un solo día preso. El mismo año el abogado rechazó una oferta de las fuerzas vivas bahienses para asumir como juez federal, cargo que ocupó Guillermo Madueño, quien tres décadas después tiró la toga cuando el Consejo de la Magistratura se aprestaba a juzgarlo por su complicidad con los crímenes de lesa humanidad en Bahía Blanca.

Montezanti no ocultaba entonces su militancia. “Hoy día tendremos que librar nuestra batalla de Obligado, porque si en 1845 la soberanía estaba en peligro, hoy también lo está”, anunció a fines de 1973 en un acto en el Parque de Mayo. En 1987 asesoró al general Adel Vilas, cara visible del terrorismo de Estado en Bahía Blanca, relación que lo obligó a apartarse de las causas de la dictadura. “Es preciso emplear el terror para triunfar en la guerra. Debe darse muerte a todos los prisioneros y a todos los enemigos”, escribió doce años atrás el “Führer”, como lo llaman sus alumnos.

Desde el cadalso
En 2007, como presidente de la Cámara Federal de Bahía Blanca, Montezanti obtuvo el respaldo de sus colegas Angel Argañaraz, Ricardo Planes y Augusto Fernández para ordenar el traslado compulsivo de Sandra Martínez Borda, vocal de la UEJN. Ante un amparo, la Cámara Nacional de Apelaciones del Trabajo ordenó a los jueces dar marcha atrás y respetar el procedimiento que fija la ley de asociaciones sindicales. Lejos de acatar la resolución, la calificaron de “escandalosa”, de “inveterada gravedad institucional” y pidieron la intervención de la Corte Suprema de Justicia para que “restaure el quicio (sic) institucional” y “se paralicen los efectos” de la medida. La Corte no hizo lugar. El mes pasado, la jueza Ana María Etchevers calificó la decisión del cuarteto de “arbitraria e ilegal”, les ordenó reintegrar a Martínez Borda a su trabajo e indemnizarla por daño moral. La noticia sólo circuló de boca en boca porque la Cámara también prohibió que se distribuyan sin autorización comunicados que no provengan de entes oficiales. El 3 de diciembre, en el Colegio de Abogados que funciona en el diario La Nueva Provincia, donde Enrique Heinrich y Miguel Angel Loyola encabezaron reivindicaciones de sus compañeros hasta que durante la última dictadura los acribillaron a balazos, el juez Planes disertó sobre “Libertad Sindical”.

La tensa relación de Sus Señorías con los trabajadores no es nueva. En 2005 la Cámara nombró a una abogada en reemplazo de una prosecretaria licenciada por enfermedad, postergando a personal más antiguo sobre el que no existían reparos, tal como apuntó en su disidencia el juez Luis Cotter. Once empleados y la UEJN impugnaron la acordada pero fueron rechazados, en el segundo caso con el argumento de que “no existen intereses colectivos a resguardar”. El voto de Montezanti y Argañaraz califica a una de las presentaciones como “indecente” y “desvergonzada”, y apunta que los escritos sugieren “un mismo autor intelectual”, cuya caza no tardó en desatarse, según los denunciantes.

Ese mismo año, sin respetar a empleados más antiguos, la Cámara nombró a una pasante en una vacante de escribiente. Diez trabajadores y la UEJN impugnaron la acordada. Una vez más fueron rechazados. “En treinta años de antigüedad en la Justicia jamás he visto que los empleados de un tribunal (...) puedan actuar como fiscales o censores” de una designación, “señalándole a este cuerpo que ha desconocido normas de máxima” y haciendo “expresa reserva de recurrir al más alto tribunal en avocamiento”, escribió Argañaraz y adhirió Montezanti. Se trata de “una falta gravísima de respeto al Superior” y “dejar pasar esa insolencia conduciría a la anarquía”, alertaron. “La perturbación al orden jerárquico no es tolerable y debe ser sancionada”, propusieron, “no exonerando de responsabilidad al ‘patrocinio sindical’ en cada escrito”. Desde su rincón solitario, Cotter destacó que “no puede concebirse que quienes cuestionan respetuosamente lo decidido por el Superior sean pasibles de sanción”.

Cuando la UEJN interpuso un recurso, una prosecretaria propuso a los impugnantes levantarles el apercibimiento a cambio de que no suscribieran el escrito y se disculparan ante los jefes. Cinco se resignaron a hacerlo. Al aceptar una disculpa Argañaraz le propuso a una empleada “una profunda reflexión”. Montezanti adhirió. “No siempre un pedido de disculpas basta para excusar una impertinencia”, escribió. La Corte dejó sin efecto las medidas dispuestas contra quienes se quejaron de las decisiones de sus superiores. Para evitar la reiteración de conflictos por motivos similares la Cámara solicitó que se la autorice a “apartarse del reglamento de Justicia de la Nación y poder nombrar a cualquier agente, aunque no se encuentre en la categoría inmediata inferior a la de la vacante”, destaca la denuncia.

El escrito de Piumato enumera irregularidades en la designación de empleados de la Secretaría de Derechos Humanos del juzgado federal, a quienes la Cámara asigna tareas en supuestas “causas análogas” a las que investigan los crímenes del Cuerpo V y la base naval de Puerto Belgrano. Montezanti también intervino en una causa en la que estaba excusado, relacionada con apropiaciones en el centro clandestino La Escuelita, quitándola de la órbita de la Secretaría ad hoc del juzgado. Pese a que está excusado para actuar en causas por delitos de lesa humanidad por sus consejos a Vilas, responsable de La Escuelita, en aquel caso, además de intervenir, opinó que “la Armada es una institución fundamental” más allá de que “algunos vesánicos la hayan empleado para sus tropelías”. Pese a que no era el tema de debate, Cotter le recordó que “hay cosa juzgada acerca de que la cúpula militar trazó y ejecutó planes criminales que cumplieron todas las fuerzas”, “ninguno de los planificadores o ejecutores ha sido declarado inimputable por vesania”, y “contra la desmemoria y el ocultamiento de la verdad” le aconsejó leer la sentencia del Juicio a las Juntas.

Quienes comparten pasillos con Montezanti & Cía. explican que la denuncia es una muestra ínfima del clima que padecen. Un secretario pidió licencia psiquiátrica luego de recibir tres sanciones en un mes. A quienes recurren sus calificaciones los derivan a la junta médica con la esperanza de que los declaren insanos. Tampoco falta el nepotismo. El hijo de Argañaraz, contador público, es secretario del juez federal Ramón Dardanelli Alsina. Su nuera es relatora del camarista Planes. El hijo de Augusto Fernández es secretario de Derechos Humanos del juez Alcindo Alvarez Canale. Todo queda en familia.

Los empleados esperan que la Corte responda a sus planteos. En marzo, la Cámara le denegó al juez Cotter, tras su licencia por enfermedad, la facultad de reasumir la presidencia. El magistrado planteó el tema a la Corte pero se jubiló sin respuesta. Días atrás, los empleados de la justicia homenajearon al ex presidente del primer tribunal del país que declaró inconstitucionales las leyes de Obediencia Debida y Punto Final. Montezanti & Cía. lo honraron con sus ausencias.

26 dicembre 2008

Este Bush es un zapato...


PERDONO A UN ESTAFADOR, PERO TUVO QUE REVOCAR EL PERDON PORQUE SE SUPO QUE HABIA SIDO COMPRADO
Una más de Bush antes de irse del gobierno
Faltaba un último escandalete para terminar de revelar la ética del presidente norteamericano. Tuvo que dar marcha atrás con su perdón cuando los diarios revelaron que el papá del delincuente había puesto plata en el partido republicano.

Uno de los últimos actos de George Bush como presidente se desmoronó en menos de 24 horas, cuanto tomó la decisión sin precedentes de revocar un perdón otorgado a un vendedor de propiedades de Nueva York que defraudó a cientos de propietarios de bajos ingresos. Isaac Robert Toussie, quien está en el centro de un caso de fraude de propiedades de largo tiempo, era una de las 19 personas a quien Bush perdonó el martes, anulando una sentencia por fraude postal y por mentirle al departamento del gobierno sobre los antecedentes. Pero en la víspera de Navidad, el presidente se vio obligado a revertir su decisión, cuando los diarios revelaron que su padre había donado recientemente casi 30.000 dólares al partido republicano.
Dana Perino, secretaria de prensa de la Casa Blanca, dijo a una conferencia de prensa que la decisión de revocar el perdón, que es inédito en la historia moderna, estaba “basado en información que se conoció más tarde”. Admitió que el perdón no había cumplido con las pautas del Departamento de Justicia y que ni la oficina de consejo de la Casa Blanca ni el presidente sabían que la contribución política del padre de Toussie: “Podría crear una aparente incorrección”.
El New York Daily News había revelado antes, ese día, que el padre de Toussie había hecho su primera donación política en abril pasado, dándole 28.500 dólares al Comité Nacional Republicano. La solicitud de su hijo para recibir un perdón fue presentada sólo cuatro meses después. “En el mejor de los casos, es vergonzoso. En el peor, es un ejemplo extraordinario de la habilidad de la Casa Blanca para estropear el pedacito de autoridad presidencial que claramente tiene”, le dijo a Associated Press Doug Berman, un profesor de derecho de la Universidad de Ohio y estudioso de las decisiones de clemencia presidenciales.
Muchos individuos que le habían comprado casas a Toussie expresaron su ira ante la noticia del perdón. “Los que están políticamente conectados reciben lo que quieren, pero dejan que la gente como nosotros nade o se hunda”, se quejaba Maxime Wilson. “Gracias al presidente por el peor regalo de Navidad que nos pudo haber dado.” Pero después de que llegó la noticia de que el perdón había sido revocado, dice que sintió un sentido de justicia.
Toussie fue demandado por cientos de residentes de Nueva York en 2001 por pergeñar un esquema que impulsaba a los compradores “inexpertos, de bajos ingresos, de barrios carecientes, compradores primerizos, a comprar casas que no podían pagar”. Las casas, en las áreas de clases trabajadoras de Brooklyn, tenían un sobreprecio de hasta un 50 por ciento y a veces el costo de los pagos de la hipoteca estaban ocultos.
Beverly Sanchez, cuya nueva casa de 150.000 dólares fue dañada por las inundaciones, les dijo a los reporteros: “Queríamos el Sueño Americano. Queríamos la casa, queríamos la verja blanca y en cambio no obtuvimos nada más que dolores de cabeza”. Según la demanda, los Toussies también citaban elogios de celebridades negras como Maya Angelou, Whoopi Goldberg y el ex alcalde David Dinkins... ninguno de los cuales hizo tales elogios”. La demanda continúa, pero Toussie se declaró culpable en 2001 de usar documentos falsos para conseguir hipotecas aseguradas por el Departamento de Viviendas y Desarrollo Urbano que inflaba los valores de las propiedades que estaba tratando de vender y recibió una sentencia de cinco meses. En 2002 se declaró culpable de fraude postal.
Exactamente, cómo decidió la Casa Blanca otorgar el perdón en primer lugar no resulta claro. Hasta ahora, Bush utilizó su perdón con moderación y, dado el actual clima económico, es improbable que el presidente hubiera firmado el perdón de Toussie; se hubieran sabido todos los detalles de las donaciones de su padre o del chanchullo por el que estuvo condenado.

Paz en el mundo...


...para los hombres de buena voluntad.

GRECIA: LA REVUELTA EN ATENAS
FRANCIA: RECHAZAN MÁS DE 120 MIL ESTUDIANTES LA REFORMA DE LA EDUCACIÓN A NIVEL SECUNDARIA
UCRANIA: EL PBI CAERÁ UN 10% EN EL PRIMER TRIMESTRE DE 2009
ESPAÑA: GRUPOS ANTI-BOLONIA SE ENCIERRAN DURANTE 6 HORAS EN UNIVERSITATS
O.MEDIO: EN GAZA YA NO QUEDA NI PAN
IRAK: AMENAZAS DE DICK CHENEY PARA PODER JUSTIFICAR LA INVASIÓN A IRAQ
AFGANISTÁN: BOMBARDEOS AÉREOS DE EE.UU. Y OTAN UNA DE LAS CAUSAS PRINCIPALES DE LA MUERTE DE CIVILES
PAKISTAN: LAS LEYES PROTEGEN A LOS MALTRATADORES Y CONDENAN A LAS VÍCTIMAS POR EL MERO HECHO DE SER MUJERES.
JAPÓN: TOKIO INYECTARÁ 38.500 MILLONES MÁS A LA ECONOMÍA
R.D.CONGO: UN EX AGENTE DE RUANDA IMPLICA A SU GOBIERNO EN EL ASESINATO DE KABILA
SAHARA: UN INFORME INTERNACIONAL ACUSA A MARRUECOS DE TORTURAS EN EL SÁHARA
SOMALIA: EEUU BUSCA CONVERTIR SOMALIA EN UNA TIERRA SIN LEY
USA: TRAS LAS INTENCIONES GEOPOLÍTICAS DE EE.UU. EN ASIA CENTRAL
MÉXICO: EL NARCOTRÁFICO AMENAZA A LOS COLEGIOS
NICARAGUA: LANZAN MANIFIESTO EN DEFENSA DE NICARAGUA
VENEZUELA: CANCILLER VENEZOLANO IMPUGNA EDITORIAL DEL WASHINGTON POST
ECUADOR: CONTRA EL PAGO DE DEUDAS ILEGALES, ECUADOR, VENEZUELA, BOLIVIA Y PARAGUAY
BOLIVIA: CONFIRMAN COMPLOT PARA ASESINAR A EVO MORALES; LO ATRIBUYEN A LA EXTREMA DERECHA
ARGENTINA: 50.000 PERSONAS MARCHAN EN APOYO A LOS «CHICOS DEL PUEBLO»
BRASIL: ES HORA DE CAMBIAR
GLOBALIZACIÓN: EL FONDO MONETARIO INTERNACIONAL ADVIERTE QUE LA RECESION PUEDE CONVERTIRSE EN “GRAN DEPRESIÓN”
CHINA: IMPULSAN EL TRASPASO DE TIERRAS CULTIVABLES PARA GARANTIZAR LA MEJOR VIDA DE LOS AGRICULTORES
CUBA: FIDEL CASTRO: DE LA SIERRA MAESTRA A LA BATALLA DE IDEAS
VIETNAM: ASCIENDE LA ESPERANZA DE VIDA VIETNAMITA

24 dicembre 2008

La prima ondata


I dati dell'Istat si riferiscono alla fine del 2007. l'anno prima erano il 4,2%
Il 5% delle famiglie non ha soldi per il cibo
Il 15,4% arriva con molta difficoltà a fine mese. Reddito inferiore a 2mila euro per una famiglia su due

Il 5,3% delle famiglie italiane alla fine del 2007 ha dichiarato di avere avuto nel corso dell'anno «momenti con insufficienti risorse per l'acquisto di cibo». Il dato emerge dall'indagine dell'Istat sulla distribuzione del reddito e le condizioni di vita in Italia. A fine dell'anno precedente il numero delle famiglie in difficoltà con gli acquisti di alimentari era risultato il 4,2%. Particolarmente critica la situazione delle coppie con tre o più figli, delle famiglie monoparentali (in particolare le madri sole) e degli anziani soli. Per quanto riguarda le famiglie con almeno tre figli, il 25% ha difficoltà ad arrivare a fine mese, l'8,1% non ha soldi per le spese alimentari e il 25,3% ha difficoltà a trovare soldi per l'abbigliamento.
POVERTÀ - Sale dal 14,6% al 15,4% il numero delle famiglie che ha dichiarato di arrivare con molta difficoltà alla fine del mese. L'Istat rileva «segnali di disagio particolarmente marcati» al sud e nelle isole, e in particolare in Sicilia dove sale al 10,1% il numero di famiglie con problemi di risorse per il cibo. La situazione migliore si registra in provincia di Bolzano e in Emilia Romagna.
REDDITO - Una famiglia su due ha guadagnato nel 2006 meno di 1.924 euro al mese, con un aumento del reddito del 2,8% rispetto al 2005, superiore all'inflazione che all'epoca era al 2,1%. In media le famiglie italiane hanno percepito un reddito netto di circa 2.379 euro al mese, tuttavia per il 61,8% il valore si attesta sotto la media e in tutte le regioni meridionali. L'indagine Istat conferma quindi la forte diseguaglianza nella distribuzione del reddito registrata negli anni precedenti, non solo tra le famiglie del nord e sud, ma anche nel meridione dove è confermato un forte divario tra famiglie povere e ricche.
CENONE - Secondo un sondaggio della Confesercenti, gli italiani spenderanno a Natale per il cenone e il pranzo complessivamente poco più di 2,5 miliardi di euro. Dato che però segna una diminuzione del 7% rispetto allo scorso anno. Il 3% (pari a 1,8 milioni di italiani) questo anno non farà la cena o il pranzo di Natale a causa delle difficoltà economiche.
SPESE MEDICHE - Secondo l'Istat sono aumentate soprattutto le difficoltà nel far fronte alla spese mediche (11,1%, contro il 10,4% del 2006), mentre risultano più contenute le famiglie che hanno riscontrato problemi nel provvedere regolarmente al pagamento delle bollette (8,8%, contro il 9,3% del 2006) e al riscaldamento (10,7%, contro il 10,4% del 2006). Salgono poi al 16,9% le famiglie che non sono riuscite a trovare i soldi per l'acquisto di abiti necessari (nel 2006 era il 16,8%).

22 dicembre 2008

En carne viva


Una vaca a contramano

Más de un kilómetro a contramano por la autopista Perito Moreno. El bólido no era otra cosa que una ternera asustada y dispuesta al suicidio antes que caer en manos de un matarife. La ternera, de alrededor de doscientos kilos de asado y cortes varios, apareció a la altura del peaje del Parque Avellaneda nadie sabe cómo. Policías y empleados de AUSA tomaron por un momento la ingrata tarea de intentar dar caza a una vaca eludiendo sus cuernos y a los automovilistas. Media hora llevó la experiencia hasta que finalmente la pudieron atrapar mediante el antiguo método de chiflarle, gritarle “ey vaca” y decirle “mansita, mansita”.

La crisi è miseria


Ci sono centinaia di migliaia di italiani per i quali precipitare dai dignitosi sacrifici alla disperazione è un attimo. Ecco una storia
"Vi racconto il mio Natale in cassa integrazione"

Quando Laura chiama, cade subito la linea. Il telefono fa un solo squillo, il tempo di un'unica vibrazione. Poi torna silenzioso. Allora Giuseppe sorride e chiama Laura. Così la ricarica di lei dura di più: "Capita - dice lui - che metto nel suo telefono dieci euro ad agosto. Poi può succedere a giugno dell'anno successivo. Perché non devi mai far passare dodici mesi senza mettere almeno dieci euro. Se no il numero si blocca".

Laura osserva il marito che racconta i trucchi del povero. È pensierosa. Parla poco: "Non mi piace che gli altri sappiano".

Come si vive con 600 euro al mese? Si vive in una casa con pochi mobili e i muri che un tempo sono stati bianchi: "Per ritinteggiarli, togliere quelle macchie nere sopra i termosifoni, bisogna aspettare tempi migliori". Il tempo presente è fatto di calcoli che non tornano. Prendiamo l'affitto: 425 euro per due camere e cucina in una zona non periferica. Non molto. Troppo per la famiglia di Giuseppe. Perché con le spese si arriva a 475 euro medi al mese e già a questo punto ne resterebbero solo 125 per vivere in tre trenta giorni. Ma siamo solo all'inizio del calcolo. Le bollette si portano via un'altra fetta: 55-60 euro per luce e gas. Si tira sui consumi: "Abbiamo il boiler elettrico. Lo accendiamo solo di notte perché dicono che così si spende meno". Ma il vero spauracchio è il riscaldamento: "Eh, su quello c'è poco da fare. Quando vedo la bolletta nella buca mi prende l'ansia. Non dipende da noi. C'è il teleriscaldamento, non possiamo risparmiare. Ci sono mesi che arrivano bollette enormi, anche 180 euro. Per fortuna non è sempre così. A ottobre, ad esempio, è arrivata da 35 euro". Con le bollette se ne vanno in tutto 95 euro. Ne restano trenta per dar da mangiare e per vestire tre persone.

A questo punto lasci cadere la penna e guardi Giuseppe negli occhi: "Diciamolo, è impossibile". Certo che è impossibile. Laura annuisce, la piccola Simona nasconde la testa tra le braccia abbandonate sul tavolo. E si spera che lo faccia perché ha sonno. Chi fa quadrare i conti in questa famiglia? "Mia madre. È vedova, ha 61 anni e la pensione di reversibilità di mio padre. È vero che si tiene in casa mio fratello ma ogni mese le arrivano 1.000 euro. Così certe volte ci troviamo al supermercato. Mettiamo le cose nel carrello. Poi, arrivati alla cassa, lei mi dice: ?Passa, faccio io'". Non bisogna immaginare che il carrello della mamma, la signora Teresa, sia stracolmo come quelli della pubblicità. Per Giuseppe e Laura la spesa la fa un particolare personal shopper: "Il volantino, quello che ti mettono nelle buche. È fondamentale. Serve per approfittare dell'offerta del momento e anche per scegliere il supermercato. Che non è sempre lo stesso. In certe settimane conviene comperare la pasta da una parte e la bottiglia di pomodoro dall'altra". Non c'è volantino che riesca a superare certi vincoli del mercato: "La pasta è sempre l'alimento più conveniente. Certe volte con un euro riesci a portarne a casa due pacchi da mezzo chilo". E la carne? "Beh, quella non possiamo permettercela". È un lusso, come dare il bianco alle pareti. Come fate con la bambina? "Ci pensa mia mamma. Prepara la bistecca quando andiamo a mangiare da lei o ce la compera quando ci incontriamo al supermercato".

I cassintegrati italiani sono in pauroso aumento. Il 20 per cento in più nel quarto trimestre 2008, secondo le stime della Cgil. Nelle tabelle non compaiono le persone ma i milioni di ore di cassa. Dietro quelle cifre ci sono 1.300 aziende in cassa integrazione straordinaria e centinaia di migliaia di italiani che fanno la vita di Giuseppe. Solo in Fiat i cassintegrati sono 50 mila. La differenza, si spera, è nella durata. Perché a 700-800 euro puoi sopravvivere per due-tre mesi al massimo. Poi devi sperare nella pensione della nonna. Precipitare da una vita di dignitosi sacrifici alla disperazione è un attimo. Quando lavorava in fabbrica Giuseppe guadagnava 1.200 euro. A questi si dovevano aggiungere i 135 di assegni familiari perché Laura, sua moglie, è disoccupata. In tutto 1.335 euro. Ma con la cassa, anche quando l'Inps si deciderà a pagare, il salario scenderà a 750 euro, che con gli assegni diventeranno 885. Nel passaggio dal lavoro alla cassa la perdita netta è di 450 euro, un terzo della busta paga complessiva. In queste condizioni per Giuseppe e chi vive come lui l'unica alternativa alla paghetta della mamma pensionata è il lavoro clandestino. Chi è in cassa integrazione non può svolgere altre attività: "Rischiamo il licenziamento".

Finora i tentativi di Laura sono andati a vuoto: "Una mattina - dice il marito - l'ho accompagnata a un colloquio al Bennet qui sotto casa. Cercavano commesse. Ci speravamo. Nelle nostre condizioni 5-600 euro in più al mese avrebbero fatto comodo. Quando è uscita ha raccontato: ?Mi hanno fatto un po' di domande e poi mi hanno detto: ?Le faremo sapere'. Allora io le ho risposto di mettersi l'anima in pace. Quando dicono così è perché non ti prenderanno mai". Trovare lavoro, anche in nero non è semplice: "La crisi c'è per tutti, anche per i clandestini". E accettare un impiego provvisorio può essere rischioso: "Ho risposto all'annuncio di un'agenzia interinale. Mi offrivano uno stipendio dignitoso ma ho rifiutato perché era un lavoro precario. Per accettare avrei dovuto rinunciare al posto alla Bertone. Non posso permettermi il lusso di rimanere senza busta paga". Così l'unico introito extra sono i sussidi straordinari. Vanno bene tutti: quelli della Regione, che in Piemonte è in mano al centrosinistra, e quelli del governo di Berlusconi. Si partecipa ai bandi e si spera di vincere la lotteria: "Certe volte ti dicono che hai i requisiti ma che siccome hai già preso l'assegno l'anno precedente finisci in coda agli altri quello successivo". Se fosse per i requisiti, Giuseppe vincerebbe sempre: "Ho un reddito Isee di 9.800 euro. La soglia per partecipare è di 17.000. Straccio tutti". Si ride per non piangere nell'alloggio del quartiere di Santa Rita. Impressiona il fatto che la povertà abiti qui, in una zona di media borghesia e non solo nei palazzoni delle periferie.

Impressiona il fatto che tra queste mura si sia dovuto aspettare il bonus della Regione (3.100 euro) per regalare a Simona la cameretta nuova. Nel discorso finale, quella specie di confessione che Giuseppe fa, solo, in fondo alle scale del condominio, c'è posto per l'ultima rivelazione: "Oggi sono contento. Ho sentito mia sorella al telefono. Ha promesso che mi passa 100 euro per i regali alla bambina. Così Babbo Natale arriverà anche per Simona. Le porterà una bella Barbie e il cd di Kung Fu Panda".

20 dicembre 2008

Domigo, Día Internacional del Zapato


CONVIERTEN EL ZAPATAZO A BUSH EN EL SÍMBOLO CONTRA LA OCUPACIÓN

EL PERIODICO, ESPAÑA
En las ciudades chiís de Irak se realizan marchas mostrando zapatos en alto, en apoyo del periodista que agredió a Bush.

El periodista iraquí Muntadar al Zeidi no solo se ha convertido en un héroe en el mundo árabe tras haber arrojado el pasado domingo en Bagdad sus zapatos contra el presidente de Estados Unidos, George Bush, mientas comparecía en rueda de prensa, sino que además ha logrado eclipsar la breve visita que hizo ayer el mandatario estadounidense a Afganistán. En Kabul, Bush, que deja la Casa Blanca en cinco semanas, se entrevistó con el presidente afgano, Hamid Karzai, al que aseguró que Washington seguirá apoyando al Gobierno asiático en su lucha contra los extremistas talibanes.

El incidente en la capital iraquí fue reproducido ayer con insistencia en la gran mayoría de medios de comunicación árabes, sobre todo en el canal por satélite Al Baghdadia, en el que trabaja Al Zeidi y que tiene su cuartel general en El Cairo. Además, el acto de lanzar los zapatos se ha convertido en un símbolo de resistencia contra la presencia de tropas de EEUU en Irak. Ayer, en las principales ciudades chiís, se celebraron manifestaciones de apoyo al periodista, de confesión también chií, bajo el eslogan "Bush, Bush, escucha bien. Dos zapatos en tu cabeza". En la ciudad santa de Nayaf, los manifestantes lanzaron sus zapatos contra una patrulla de EEUU.

HACER LO MISMO "Estoy seguro que muchos iraquís desearían hacer lo mismo que hizo Muntadar", dijo Udai, uno de los hermanos del periodista. En Arabia Saudí circuló ayer un SMS en el que se podía leer: "Irak escoge el domingo como el día internacional de zapato". Conocidos articulistas de la prensa árabe, como Abdel Bari Atwan, del prestigioso diario Al Quds Al Arabi, basado en Londres, calificó ayer el intento de agresión contra Bush de "un adios adaptado a un criminal de guerra", mientras que una web islamista bautizó al agresor de "héroe con corazón de león". Una de las hijas del lider libio, Muamar el Gadafi, ha asegurado que la asociación caritativa que preside condecorará al periodista.

Al Zeidi fue ayer interrogado por la policía iraquí y sometido a un test de alcohol y drogas. Además se investiga si actuó a cambio de dinero. El Gobierno de Bagdad calificó el incidente de "acto ignominioso" que "atenta contra la reputación de los periodistas iraquís", al tiempo que exigió al canal Al Baghdadia que pida disculpas públicamente. Bush se refirió ayer al incidente bromeando. "No sé lo que el tipo me dijo, pero sí que vi las suelas de los zapatos. Todo lo que puedo decir es que eran del 43". Antes de lanzarle los zapatos, que Bush logró esquivar, el periodista le dijo: "Este es mi beso de despedida, eres un perro", uno de los mayores insultos en el mundo árabe.

19 dicembre 2008

La Casación nazifascista


LA CAMARA DE CASACION DISPUSO LA LIBERACION DE REPRESORES DE LA DICTADURA QUE ESTAN PRESOS SIN CONDENA
Cuidado... peligro de dinosaurios sueltos
La medida se basa en que estuvieron mucho tiempo presos sin condena. El fiscal apelará la decisión. Los organismos de derechos humanos señalaron que “las distintas instancias de la Justicia han demorado en forma injustificada los procesos”.

Por Victoria Ginzberg
La Cámara Nacional de Casación Penal dispuso la liberación de cerca de veinte represores de la última dictadura acusados por delitos de lesa humanidad. Los miembros de la patota de la ESMA Alfredo Astiz y Jorge “El Tigre” Acosta, el ex juez Víctor Brusa y el ex general Ramón Genaro Díaz Bessone son algunos de los beneficiados por el fallo. El tribunal consideró que todos ellos –la mayoría fue arrestada en 2003– estuvieron presos sin condena más tiempo del razonable. “La liberación es posible porque las distintas instancias de la Justicia han demorado en forma injustificada los procesos, dilatando la posibilidad de alcanzar la instancia de los juicios orales y públicos. La libertad de los acusados durante el proceso penal no conlleva impunidad. A treinta años del terrorismo de Estado, impunidad es que, por desidia, indolencia o complicidad, la Justicia argentina aún no los haya condenado”, señalaron Abuelas de Plaza de Mayo, Madres de Plaza de Mayo Línea Fundadora, Familiares de Desaparecidos y Detenidos por Razones Políticas, HIJOS, CELS y Fundación Memoria Histórica y Social Argentina. La presidenta Cristina Fernández de Kirchner repudió la decisión y dijo que era “un día de vergüenza para todos los argentinos”

Los represores no quedarán en libertad de inmediato. De hecho, la Procuración General de la Nación, a través de la Unidad Fiscal de Coordinación y Seguimiento de causas por violaciones a los Derechos Humanos durante el terrorismo de Estado, señaló que las apelaciones de los fiscales tienen “efecto suspensivo”, es decir, interrumpen los efectos del fallo. El fiscal Raúl Plée ya anticipó que hará una presentación en ese sentido, por lo tanto ningún acusado debería recuperar la libertad hasta ese momento y luego será la Corte Suprema quien defina si los represores salen de la cárcel hasta que se inicien los juicios orales.

Los fallos que disponen la excarcelación de los acusados de delitos de lesa humanidad abarcan personas acusadas de cometer crímenes en la ESMA, en Rosario y Santa Fe y fueron firmados por la sala II de la Cámara de Casación, integrada por Guillermo Yacobucci, Luis García y Gustavo Mitchell. Este último se opuso al criterio de liberar a los acusados.

La ley prevé que un imputado puede estar dos años preso sin condena. Luego, estipula un año de prórroga y, en caso que jueces y fiscales lo consideren necesario, es posible que se reconozcan plazos extraordinarios. La posibilidad de fuga o de que el liberado entorpezca la investigación son motivos para ello.

Yacobucci y García consideraron que el tiempo de prisión para los represores estaba agotado. Argumentaron que “la prolongación de la prisión preventiva, cualquiera sea el caso, debe respetar criterios de razonabilidad” y que “las sucesivas exenciones ponen en duda la razonabilidad de la medida”. Los jueces indicaron que “los límites temporales deben ser atendidos para impedir que se constituya una pena anticipada”.

“Las alegaciones sobre la complejidad del caso y la pluralidad de hechos atribuidos fueron idóneas para fundar el dictado de la prisión preventiva en su oportunidad. Sin embargo, transcurridos los plazos antes mencionados, sin que se tenga fecha cierta sobre la realización de la audiencia de debate, torna esos mismos argumentos, luego de sucesivas prórrogas, inoponibles en esta instancia. Otro tanto ocurre con la gravedad de los hechos y la amenaza de sanción”, señaló Yacobucci.

Los votos que fundan la decisión de liberar a los represores incluyen citas a precedentes de la Corte Suprema y a la Comisión Interamericana de Derechos Humanos. Pero lo mismo ocurre con el escrito de Mitchell, que disintió con sus colegas y fundamentó su escrito no solo en el carácter aberrante de los crímenes que se investigan, sino en el peligro de fuga de los acusados: “La extrema gravedad de los delitos atribuidos, así como la sanción que eventualmente les corresponderá, la naturaleza de aquellos, la repercusión y alarma social que producen son, en principio, un serio impedimento para que pueda accederse a su soltura. Tanto más cuanto que al haberse perpetrado los hechos acriminados al amparo de la impunidad que significaba la ocasional protección estatal es dable sostener que existen indicios suficientes para presumir que intentará eludir la acción de la justicia, en concreto, el cumplimiento de la pena que podría corresponderles”.

Más allá de los argumentos en contra de las excarcelaciones, los organismos de derechos humanos pusieron el foco en la demora de la justicia. “Existe una sumatoria de factores que llevaron a este hecho. Hay instrucciones lentas y en el caso de la ESMA hay una decisión de no tocar la distribución del trabajo del Tribunal Oral 5, que tiene a su cargo las dos causas más importantes en Capital: la ESMA y Primer Cuerpo de Ejército. La mejor forma de parar las liberaciones es fijar fecha de juicio y esa decisión la puede tomar Casación, la Corte o el propio Tribunal Oral”, señaló a Página/12 un funcionario judicial.

El año próximo, el TOF 5 realizará un juicio vinculado a los jefes de área del primer Cuerpo de Ejército que podría demorar siete meses. Eso implica que, si no hay cambios en la organización de estos expedientes, no habrá un proceso sobre la ESMA hasta 2010.

La Unidad Fiscal de Coordinación y Seguimiento de causas por violaciones a los Derechos Humanos durante el terrorismo de Estado de la Procuración había advertido el año pasado sobre este punto y pidió que los expedientes se repartan en otro tribunal oral, pero ni la Cámara de Casación ni la Corte Suprema tomaron medidas. En el máximo tribunal aseguran hace tiempo que se está trabajando en buscar una forma de agilizar los procesos vinculados con la última dictadura. Hasta el momento no se tomó ninguna decisión. El expediente de la ESMA, además, estuvo cuatro años paralizado en la misma Cámara de Casación cuando la presidía Alfredo Bisordi, quien dejó el tribunal para reciclarse como defensor de represores.

La decisión de Casación generó una ola reacciones que incluyó el repudio de la presidenta Cristina Kirchner y el anuncio de un pedido de juicio político en el Consejo de la Magistratura (ver aparte). Taty Almeida, de Madres de Plaza de Mayo Línea Fundadora, calificó la medida como una cachetada: “Esto es un agravio. Estábamos haciendo un balance positivo de la justicia que se iba logrando en los últimos tiempos, y ahora esto es una cachetada que recibimos”.

15 dicembre 2008

La cuna de los cipayos


La gente, ese medio pelo...


Por Eduardo Aliverti
Hace siete días, esta columna se permitió el facilísimo pronóstico de predecir que, tras la suma de todos los balances que se harían a diestra y siniestra por los 25 años del retorno democrático, faltaría el de los grandes emporios periodísticos (que ya no son eso sino emporios de grandes negocios, simplemente) respecto de sí mismos. Hoy, con el resultado puesto, hay algo más fácil todavía. Es la constatación de que, otra vez, también faltó el arqueo de cómo jugó la sociedad argentina en estas dos décadas y media.

Los balances políticos siempre recaen, con exclusividad, en lo que se identifica como clase política. Con ortodoxia ideológica, cabría decir que el conjunto de funcionarios y legisladores de todo rango y lugar, señalados por el vulgo como “los políticos”, no es una clase en el sentido más puro del término. En todo caso serían una casta burocrática, que administra los intereses de quienes se adueñan de los medios de producción. Y además, si a los alcances de la palabra “política” se les da una acepción convencionalmente más amplia, que involucre a lo que se llamaría la capa dirigente, debe meterse allí a empresarios, sindicalistas, organizaciones profesionales, etc. Pero resulta que no se mete a ninguno de todos esos. En los balances sólo ingresa lo registrable como “los políticos”. Por algo será que quienes conducen el cotidiano de la sociedad, además de ellos (los grandes productores, los formadores de precios, los negociadores salariales, los defensores de sector), no forman parte de los balances. Y por algo será que lo que se denomina “la gente del común” tampoco figura. ¿Por qué será?

Se propone excluir de la indicación a las llamadas “clases populares”, que es el eufemismo para pobres, indigentes, marginados, marginales. La gente que vive con lo justo, o más bien con menos de lo justo o ni siquiera, para simplificar. ¿O acaso es ideológica e intelectualmente honesto pedirle repasos de su compromiso social a quien sólo puede tener como preocupación parar la olla todos los días? ¿Vamos a exigirles responsabilidad a los hijos de la indigencia educativa, a los analfabetos funcionales que garantizan la continuidad del sistema, a un pibe chorro? Claro que no, ¿no? Los balances cabe pedírselos a quienes disponemos de las mínimas condiciones materiales para poder hacerlos. De modo que hablamos, básicamente, de la aún extendida clase media argentina. Y de ahí para arriba. Es de ella de quien hablan los medios cuando hablan de “la gente”. La gente no son los pobres en el argot de la biosfera mediática. La gente no son las villas, ni los cartoneros ni los dados vuelta por el paco ni los que esperan turno seis meses para operarse en un hospital público ni los laburantes en negro ni nada de eso. No, eso no es “la gente”. La gente viene a ser la destinataria de comprarse un cero kilómetro base en un plan de emergencia, la que sufre la inseguridad en la zona norte, la que cambia el celular a cada pelotudez que le agregan, la destinataria de algún plan de aliento turístico, la que putea en los mensajes telefónicos de la radio, la que sufre los retrasos en los vuelos, la que sale a la calle si le tocan el bolsillo en un corralito, la que se queja de los precios de los alquileres en la costa. Según los medios, eso es la gente. Y hasta podría deducirse que, por obra del imaginario que crean los medios, la otra gente también puede llegar a creerse que la gente es solamente esta otra.

No se trata de desembocar en un oscurísimo panorama acerca del papel que le cupo a este tipo de “la gente” en estos 25 años. Además de no ser objetivo, sería profundamente injusto porque, junto con algunas luchas de los sectores populares, fue desde las franjas medias de donde surgieron muchas de las mejores actitudes y gestas del tiempo democrático. El juicio y castigo a los genocidas, como ejemplo inédito en el mundo, es el caso más ostensible. Otro lo constituye la denominada “movilidad cultural”, que no sólo no se detuvo sino que se expandió aun en los momentos más dramáticos de las crisis. El espíritu de protesta; la búsqueda y concreción de medios comunicacionales alternativos; los intentos renovadores en la representatividad sindical; los grandes luchadores solitarios o agrupados en colectivos de solidaridad o esclarecimiento intelectual, fueron y son producto de ese jamón del sandwich que es la clase media. Esa clase que, en la historia moderna de los argentinos, tanto ha servido para alejarnos de donde pertenecemos, América latina, como para ponerles límites a las injusticias... de clase. Bien contradictorio, como corresponde a la dialéctica de las relaciones de poder.

Recordado el punto, estábamos en que no figura en ninguna parte el balance global acerca de “la gente”. Y, tal vez, tampoco lo hay de esa gente respecto de sí, en el decurso político de estos años que acaban de cumplir aniversario redondo. Por si las moscas, para que no parezca un ejercicio de soberbia capaz de sobreimprimirse al análisis concreto, conviene ponerlo en primera del plural. Aun a costa de que cada quien, total o parcialmente, no se sienta involucrado. ¿No entra en los balances que compramos la convertibilidad como antes la tablita cambiaria de la dictadura? ¿No entra el voto licuadora del ’95, cuando ya estaba claro lo que significaba Menem? ¿No entra que nos creímos haber ingresado al Primer Mundo? ¿No entra que votamos a la Alianza porque supusimos que el modelo se arreglaba con gente más presentable? ¿No entra que en lugar de irse todos se quedaron? ¿No entra que seguimos exigiendo mano dura contra la inseguridad, después de que fracasaron todas las manos duras posibles? ¿No entra haber confiado en los Blumberg? ¿No entra haber suscripto que achicar el Estado es agrandar la Nación? ¿No entra que nos preocupamos por el riesgo-país? ¿No entra que no consideramos inseguridad a que pobres e indigentes sumen un tercio de la población? ¿No entra haber confiado en la jubilación privada? ¿No entra que nos indignan los paros docentes porque no tenemos dónde meter los hijos, pero no que el metro cuadrado en Puerto Madero ande por los 6 mil dólares? ¿No entra que quienes cortan las calles sean negros de mierda y los que cortan las rutas productores desesperados? ¿No entra emocionarse viendo al presidente de la Sociedad Rural cantando la marcha peronista? ¿No? ¿No entra en el balance de estos 25 años? ¿Qué tal el “nosotros”, además del “ellos”?

Este tipo de preguntas sobre este tipo de “la gente”, que por supuesto podrían seguir sin que se agote el stock, no pretenden en modo alguno afirmar o sugerir que debe ponerse una lupa especial sobre ella. Sólo intentan asentar qué curioso es que en los balances políticos sólo entren “los políticos”. Como si los políticos no fuesen un producto de la gente, además. Quizá sea por eso. Porque, vamos, ya somos gente grande.

12 dicembre 2008

Cárcel común para los genocidas


ORGANISMOS DE DERECHOS HUMANOS REALIZARON LA 28ª MARCHA DE LA RESISTENCIA
“Falta mucho para que haya justicia”
Como cada 10 de diciembre, Madres, Abuelas y otras entidades se manifestaron en Plaza de Mayo. Reclamaron “juicio y reclusión perpetua en cárceles comunes a los genocidas, cómplices e ideólogos” y la restitución de los más de 400 chicos apropiados.

A 28 años de aquella primera Marcha de la Resistencia que las encontró reclamando durante un día entero por la vida de sus hijos, las Madres de Plaza de Mayo (Línea Fundadora) acudieron, como cada 10 diciembre, a la histórica plaza. “Sobre la impunidad y la injusticia no podemos construir el país que soñaron, 30 mil desaparecidos: presentes”, fue la consigna principal de una jornada que tuvo un valor agregado al coincidir con los 25 años de democracia, los 60 años de la Declaración Universal de los Derechos Humanos y el primer año del actual gobierno.

Además de las Madres estuvieron las Abuelas, HIJOS, la Asociación de Ex Detenidos Desaparecidos, Hermanos de Desaparecidos por la Verdad y la Justicia, Familiares de Desaparecidos y Detenidos por Razones Políticas, CTA, Libres del Sur, Proyecto Sur y GEN, entre otras entidades y agrupaciones.

La conmemoración empezó al mediodía con un recorrido desde Piedras y Avenida de Mayo hasta la Plaza de Mayo, y concluía a la medianoche con una caminata con antorchas alrededor de la Pirámide y la lectura de un documento redactado en conjunto por las organizaciones de derechos humanos. Cuando la columna llegó a la plaza, se desplegaron dos enormes banderas con los rostros de los desaparecidos. Se reclamó “juicio y reclusión perpetua en cárceles comunes a los genocidas, cómplices e ideólogos”, al tiempo que se exigió la “restitución de la identidad de los más de 400 chicos apropiados por el terrorismo de Estado” y la “aparición con vida de Jorge Julio López”. La música, de la mano de la tanguera argentino-mexicana Liliana Felipe y del grupo Iven, de Venezuela, amenizó el atardecer del microcentro porteño.

Si bien el calor no dio tregua, apenas fue una molestia ante la vitalidad que le impusieron a su aniversario las Madres del pañuelo blanco. Como en aquellas rondas que empezaron a las 15.30 del 10 de diciembre de 1981 y finalizaron 24 horas después, pocos días antes de que asumiera Leopoldo Galtieri, las Madres, pese al paso del tiempo, hicieron sus tradicionales caminatas circulares junto a los adherentes a la marcha. Invitados a la jornada, trabajadores del Indec y del Hospital Francés aprovecharon la circunstancia para manifestar sus demandas salariales y laborales. Mientras, algunos militantes de agrupaciones como Asambleas del Pueblo, Quebracho, Movimiento Independiente de Desocupados Organizados y el MST convergían junto al resto de las organizaciones, convirtiendo a la Plaza de Mayo en un eco de múltiples y divergentes expresiones amparadas alrededor de los derechos humanos. Algunas de las organizaciones montaron carpas en la que expusieron a los curiosos sus directrices políticas.

Nora Cortiñas, referente de Línea Fundadora, afirmó a Página/12 que “este aniversario lo vivimos firmes en nuestra voluntad de lucha porque todavía falta mucho para que haya justicia, aun con los logros que hemos conseguido. La condena no es todavía como la queremos. Hay más de 400 jóvenes que no conocen su identidad. Hubo un avance en la memoria, tanto en el pueblo como en los medios de comunicación y en las distintas formas de divulgación”. Recordó que “nuestros hijos fueron desaparecidos para que el modelo neoliberal arrasase sin oposición alguna”. En cuanto a las deudas de la democracia actual, Cortiñas criticó al gobierno nacional y al bonaerense porque “criminalizan la situación de penuria que viven los niños y los jóvenes intentando bajar la edad de imputabilidad”.

Taty Almeida, también de Línea Fundadora, derrochaba alegría y satisfacción: “Hay que reír y vivir con ganas, mi hijo Alejandro siempre tuvo esa actitud de gozar la vida y estaría feliz de verme así a mis 77 pirulos”. Sostuvo que “hay mucho que festejar. Porque vivir en democracia es lo más positivo que nos puede pasar. Falta todavía, hay desigualdad, pero hay que reconocer las mejorías y hacer una crítica constructiva de lo que falta. Hay que insistir para hacer a nuestra democracia justa e incluyente”.

10 dicembre 2008

¿Diritti umani?


A 60 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, un mondo guidato da imprenditori, politici e religiosi delinquenti, sostenuti da cittadini "pecore", mostra vergognosamente la perdita consistente e progressiva dei diritti umani fondamentali.

Fao: "Aumenta la fame nel mondo, quasi un miliardo senza cibo"

La fame miete sempre più vittime: altri 40 milioni di persone si sono aggiunti quest'anno alla già lunga lista di coloro che soffrono la mancanza di cibo, principalmente a causa dell'aumento dei prezzi alimentari. Secondo le stime preliminari pubblicate oggi dalla Fao, nel mondo sono 963 milioni le persone sottonutrite, quasi un miliardo. E l'attuale crisi finanziaria ed economica - avverte l'agenzia delle Nazioni Unite - potrebbe far lievitare ulteriormente questa cifra.



La lista si allunga
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Nel 2007 erano 923 milioni le persone che non avevano abbastanza cibo. La Food and Agriculture Organization segnala che alla base del "drammatico quanto rapido" aumento del numero di affamati cronici nei Paesi del Sud del mondo c'è l'impennata dei prezzi delle materie prime agricole.

Il costo del cibo.
L'aumento dei prezzi ha fatto precipitare nell'insicurezza alimentare milioni di poveri e ridotto drasticamente la quantità e qualità del cibo a loro disposizione. E' pur vero che c'è stato un calo dei prezzi dall'inizio del 2008, ma, ha spiegato il vicedirettore generale della Fao e curatore del rapporto Hafez Ghanem, "per milioni di persone riuscire a mangiare ogni giorno una quantità di cibo sufficiente è ancora un sogno lontano". In ogni caso, il calo non è stato abbastanza forte: l'Indice Fao dei prezzi alimentari nell'ottobre 2008 era ancora un 20 per cento più alto rispetto all'ottobre 2006.

Le difficoltà degli agricoltori.
Con i prezzi delle sementi e dei fertilizzanti più che raddoppiati dal 2006, i contadini poveri non sono riusciti ad aumentare la produzione, mentre gli agricoltori più ricchi, soprattutto nei Paesi sviluppati, hanno sostenuto i prezzi più alti e accresciuto le semine.

L'avvertimento.
Ghanem ha parlato anche dei rischi futuri: "Se i prezzi più bassi e la stretta creditizia associati alla crisi economica costringeranno gli agricoltori a diminuire le semine - ha osservato - l'anno prossimo potrebbe verificarsi un'altra drammatica ondata di prezzi alimentari alti e ancora più affamati".

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CHIESA: MEGLIO LA PENA DI MORTE AI GAY CHE PERDERE FEDELI

In molti paesi l'omosessualità è considerata un reato penale punibile anche con la morte. La Francia con portavoce il ministro Rama Yade indende, a nome di tutti gli stati membri dell'Unione Europea, depenalizzare l'omosessualità in tutto il mondo, ma la Chiesa che non intende "Rinunciare al suo speciale stato diplomatico e definirsi per quello che è, la più grande organizzazione non governativa del mondo" come ha definito "The Economist" in un suo articolo, tramite l’arcivescovo Celestino Migliore portavoce all' ONU della Santa Sede esprime un netto no alla proposta di depenalizzazzione ancora non formalizzata della Francia. Il motivo di dissenso della Chiesa è che una legge del genere una volta approvata possa essere utilizzata per riconoscere il matrimonio gay e mettere in pericolo importanti concezioni ...

Iran, impiccato perché era gay"Per la sodomia c'è solo la forca"
TEHERAN - Il presidente iraniano Ahmadinejad aveva affermato che gli omosessuali non sono perseguitati nel suo Paese "perché non esistono". L'aveva detto durante la visita negli Usa alla Columbia University meno di tre mesi fa. Ma un gay di 20 anni è stato impiccato con l'accusa di violenza sessuale su tre ragazzini quando aveva appena 13 anni. Non è bastata la sospensione dell'esecuzione decretata dalla magistratura e il ritiro della denuncia delle parti civili. Neppure la mobilitazione internazionale è servita per salvarlo.

Makwan, arrestato sei anni dopo i reati contestati, è salito sul patibolo ieri mattina nel carcere di Kermanshah, nell'ovest dell'Iran. Un'esecuzione frettolosa, secondo quanto scrive oggi il quotidiano Etemad Melli. La famiglia è stata avvertita un'ora dopo perché andasse a prelevare il corpo. E all'impiccagione non era presente nemmeno il suo avvocato, Said Eqbali. Secondo testimoni, dopo essere stato arrestato nella cittadina dove risiedeva, Paveh, Makwan era stato umiliato venendo portato in giro per le strade sopra un asino. La sodomia è uno dei reati per i quali nella Repubblica islamica è prevista la pena di morte. La legge è ambigua, poiché non vi è discriminante tra la violenza carnale e gli atti consensuali. Diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani, tuttavia, come Human Rights Watch, che ha reso noto il caso di Makwan, hanno denunciato le esecuzioni di giovani condannati solo perché omosessuali. La condanna a morte, inoltre, è applicata in Iran anche nei confronti di minorenni, o di persone che erano minorenni all'epoca dei reati contestati.
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Morti bianche, una strage lunga un anno
ROMA - Quasi un milione di incidenti l'anno con un lavoratore ucciso in media ogni 7 ore, per un totale che è arrivato a quota 1.260 morti nel 2007, con i dati Inail 2008 che parlano chiaro: da gennaio a settembre le vittime sul lavoro sono state 779, meno delle 908 registrate nello stesso periodo del 2007, ma sempre troppe, con una media giornaliera di circa tre morti al giorno. Una strage lunga un anno e con costi altissimi, non solo in termini di vite spezzate: si calcola che in 12 mesi la spesa per gli incidenti sia pari a oltre 4 miliardi di euro, circa quattro leggi Finanziarie, il 3,2% del Pil.

Una "strage bianca" sulla quale non c'è abbastanza attenzione da parte dei media, come testimoniano le rilevazioni puntuali fatte dall'Amnil, Associazione Nazionale Mutilati, che incrociando le notizia di agenzia, del web e della rassegna stampa ha potuto contare da gennaio a oggi "soltanto" 471 morti. Dati che mettono in luce un enorme "buco" da parte dell'informazione italiana rispetto ai pur provvisori dati Inail: "I mezzi di informazione - ha detto Franco Bettoni, presidente Anmil - non si appassionano alla storia di una morte sul lavoro come invece succede per un caso di omicidio, specialmente se di difficile soluzione. Probabilmente perché in fondo le morti sul lavoro si considerano come una fatalità, piuttosto che come qualcosa di evitabile".

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Argentina - "Desaparecidos", una ferita ancora aperta

Generale Ibérico Saint Jean, governatore di Buenos Aires (1977): "Prima uccideremo tutti i sovversivi, poi uccideremo i loro collaboratori, dopo i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e alla fine i timidi."

Si calcola che siano più di trentamila i desaparecidos tra il 1976 e il 1983 durante la dittatura militare in Argentina. A questi si devono aggiungere oltre 1.500.000 di esiliati, 9.000 prigionieri politici, 15.000 fucilati per le strade e più di 500 bambini sequestrati o nati in campi di concentramento e rubati dalle loro identità e ridotti in schiavitù.

Il metodo repressivo sperimentato dalla dittatura militare basato sulla tortura, sul sequestro, sui campi di concentramento clandestini, sui bambini trattati come bottino di guerra, sull' omicidio e sull'occultamento dei cadaveri resta una delle macchie più infami del passato recente della storia dell' umanità.

Il 24 di marzo del 1976 le Forze Armate e precisamente Massera per la Marina, Agosti per l'aeronautica e Videla per l'esercito, che poi sarà il presidente di fatto, rovesciano il governo di Isabelita Perón instaurando la dittatura militare.

I golpes militari in Argentina, come in tutti i paesi dell' America Latina, godevano dell' appoggio, oltre che della classi più abbienti del paese, anche di quello di una parte abbastanza consistente della classe media che vedeva nei militari un forte spirito patriottico utile per affrontare i problemi economici e politici in cui il paese si trovava. Gli stessi militari che prendono il potere definiscono il nuovo periodo storico che si accingono a interpretare come il Processo di Riorganizzazione Nazionale i cui i obiettivi strategici erano sterminare la guerriglia, riordinare l' economia e disciplinare la società.
Appena arrivata al potere la giunta militare dichiara lo stato d' assedio. Viene sciolto il parlamento, vengono abolite le organizzazioni sindacali e studentesche e chiusi i giornali non schierati.

Il Debito Estero
Una politica selvaggia di neoliberismo apre le porte a capitali e prodotti stranieri a scapito della già sofferente industria locale. Per colmare un deficit statale che si andava incrementando di anno in anno l'Argentina inizia a chiedere prestiti al Fondo Monetario Internazionale, organismo bancario controllato dai G7, iniziando così a mettere le basi per quello che diventerà negli anni '90, con il perpetuarsi dei prestiti dei governi costituzionali, uno dei più grandi debiti esteri del mondo e che porterà nel dicembre 2001 alla bancarotta dello stato e allo sfascio sociale ed economico del paese.

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Bambini e bambine soldato


Mezzo milione di minori sono impiegati negli eserciti regolari e nei gruppi armati di opposizione in 85 paesi; più di 250.000 di questi prendono parte ai combattimenti in 35 paesi, e ben 120.000 solo nel continente africano.

Nel Rapporto presentato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite al Consiglio di Sicurezza nel 2005 sono stati segnalati Paesi in conflitto o reduci da conflitti in cui i bambini e le bambine subiscono gravi violazioni dei loro diritti.

L’elenco dei Paesi è stato aggiornato nel Rapporto del 2006 ed attualmente comprende: Afghanistan, Burundi, Chad, Colombia, Costa d’Avorio, Iraq, Liberia, Myanmar, Nepal, Filippine, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sri Lanka, Sudan e Uganda.
Anche se sono stati compiuti progressi in alcuni Paesi, come in Liberia e in Sierra Leone, in alcuni aree di crisi, in Sudan (Darfur), Chad, Afghanistan, Iraq e Sri Lanka ad esempio, la situazione ha continuato a peggiorare, mentre in Libano, Israele e nei Territori Occupati Palestinesi la recente escalation di violenza ha causato migliaia di vittime.

Le bambine soldato
Sono sempre di più le bambine e le ragazze coinvolte nei conflitti armati che partecipano direttamente alle ostilità.
Si tratta di bambine e ragazze particolarmente vulnerabili, spesso rimaste orfane di entrambi i genitori, uccisi durante i combattimenti, o che vengono rapite durante le incursioni dei gruppi di ribelli.
Le ragazze rimaste orfane tendono a cercare rifugio e protezione negli eserciti per sfuggire alle dure condizioni della vita di strada, ma una volta arruolate vengono ridotte in schiavitù, costrette a soddisfare i desideri, anche sessuali, dei combattenti. Subiscono ripetutamente violenze e abusi. Il rischio di contrarre HIV/AIDS ed altre malattie sessualmente trasmissibili è molto elevato, così come le probabilità di restare incinta.

9 dicembre 2008

Contra los organizadores del olvido


“El infierno no termina al cerrarse las puertas del campo de concentración”
El Ministerio de Cultura español promovió el Primer Encuentro Internacional de Memoria Histórica en la Universidad de Salamanca, la misma donde Miguel de Unamuno enfrentó al dirigente franquista Millán de Astray cuando éste entró a los claustros pistola en mano gritando “Viva la muerte, abajo la inteligencia”. En esa reunión, de la que participaron delegaciones de Chile, Argentina, República Dominicana, Portugal y Alemania, el poeta y columnista de Página/12 fue el encargado de realizar la conferencia inaugural sobre “el imperativo moral de la memoria colectiva”.

Por Juan Gelman
Soy padre de un hijo de 20 años secuestrado, torturado, asesinado en 1976 por la más reciente dictadura militar argentina, que también desapareció sus restos. Fueron hallados, gracias a la infatigable labor del Equipo Argentino de Antropología Forense, 13 años después. Soy suegro de su esposa, secuestrada cuando tenía 19 años, trasladada de Buenos Aires a Montevideo encinta de ocho meses y medio y asesinada por la dictadura militar uruguaya dos meses después de dar a luz. Sigue desaparecida y su hija fue entregada a un policía de matrimonio estéril. Soy abuelo de una nieta de la que me robaron sus primeros 23 años de vida y que mi mujer, Mara La Madrid, que no es la madre de mis hijos, y yo buscamos y encontramos al cabo de una larga investigación. Nada de esto hubiera sido posible sin el testimonio oral de sobrevivientes uruguayos y argentinos, sin expedientes judiciales y aun militares, sin ese archivo tan particular que es el banco de datos sanguíneos de familiares de desaparecidos del Hospital Durand de Buenos Aires, sin una campaña internacional de denuncia que tuvo la solidaridad de decenas de miles de poetas, escritores, artistas y gente de a pie de 122 países, sin libros, sin documentos, sin Internet, sin videos y, sobre todo, sin la voluntad imperiosa de encontrar la verdad.

Hablo desde la experiencia argentina. ¿Por dónde empezar? ¿Por la madre de un desaparecido que año tras año y día tras día arreglaba el cuarto de su hijo y a la noche le preparaba la sopa que él solía tomar al regreso del trabajo? La sopa se enfriaba en la mesa sin remedio. ¿Por el sueño de la hija de una desaparecida? Este sueño: “Mamá vive en el departamento de la calle 47. Voy a visitarla. Tengo miedo de que me abrace y al hacerlo se convierta en fantasma”. Ha pasado mucho tiempo desde la de-saparición de ese hijo y de esa madre, pero no hay final del duelo todavía. No lo habrá mientras no se encuentren sus restos y descansen en un lugar de recuerdo y homenaje. No lo habrá mientras esa madre y esa hija no sepan toda la verdad sobre su sufrimiento. No lo habrá mientras esa verdad no conduzca a la Justicia.

El infierno no termina cuando se cierran las puertas del campo de concentración y los hornos se apagan: hace un cuarto de siglo que cesó el infierno militar en la Argentina y centenares de miles de personas –hijos, padres, hermanos, familiares, amigos de los desaparecidos– viven esa segunda parte del infierno que crepita en la memoria y no hay modo de apagar. “Desde entonces, a una hora incierta/esa agonía vuelve/y hasta que mi cuento espantoso sea contado/mi corazón sigue quemándose en mí”, dice el viejo marinero de un poema de Coleridge que recordó Primo Levi. Para muchos argentinos, uruguayos, chilenos, centroamericanos y nacionales de tantas otras latitudes del mundo esa estrofa poética es vida real y quema cada día.

“En nuestro país el olvido corre más ligero que la Historia”, dijo el escritor Adolfo Bioy Casares. Pues no sólo en la Argentina. Desaparecen los dictadores de la escena y aparecen inmediatamente los organizadores del olvido. “¿Para qué renovar las penas? –dice Ismene a Edipo–. El dolor se sufre al recibir las penas y se vuelve a sufrir al recordarlas.” El Día de Muertos, el pueblo mexicano acude a los cementerios, se sienta alrededor de sus difuntos, toca la guitarra y les canta, les pide que sigan muriendo en paz y que dejen en paz a los vivos para que los recuerden sin terrores. Pero los familiares de los desaparecidos no tienen dónde hablarles y ellos son fantasmas inciertos que vuelven a doler en la memoria.

“Los padres quedaron sin hijos y no terminan sus quejas. Conocen al fin cuál es el dolor total sin remedio”, dice Esquilo. ¿Cada recuerdo trae un dolor que se amontona, capa sobre capa, y se convierte en una geología del dolor? ¿Es posible dialogar con el dolor, fingir que tiene rostro y que no es una potencia que viene y va y protesta contra la muerte del ser querido y le da cuerpo y la afirma negándola? ¿La locura sería la última puerta del dolor, una manera de convertirse en dolor para no padecerlo y desaparecer en el dolor? ¿No será ésa una forma de fundirse con la víctima y así morir con ella? Los familiares de los desaparecidos están en otro lugar. “Un loco, solamente un loco que perdió la mente olvidar puede la muerte de su padre”, dice Electra. O la muerte de un hijo. No es ésa la locura de los familiares: su única “locura” consiste en exigir verdad para las víctimas y justicia para los victimarios. Es un camino lleno de obstáculos con los que se tropieza día a día. Los comisarios del olvido tienen recursos y conocen su trabajo.

Un pacto de silencio sella la boca de los militares argentinos, con pocas excepciones. Cuando sus camaradas conocen que alguno está dispuesto a hablar, lo callan con una buena dosis de cianuro: le ocurrió al prefecto naval Héctor Febres, a punto de ser condenado por los crímenes que cometió durante la dictadura militar. O desaparecen a testigos importantes de los juicios por delitos de lesa humanidad, como desaparecieron a Julio López, para agitar el miedo en las víctimas testimoniantes. La policía facilita la huida del represor atrapado o quema archivos de sus operaciones. La jerarquía de la Iglesia Católica argentina que, a diferencia de la chilena, santificó la matanza –un obispo del Vicariato llegó a decir “cuando hay derramamiento de sangre, hay redención”–, la jerarquía de la Iglesia Católica argentina, que ordenó tranquilizar a militares desasosegados porque venían de tirar prisioneros vivos al océano, se niega a abrir sus muy prolijos archivos de la época, que permitirían recuperar al menos los restos de numerosos desaparecidos.

Ciertos jueces, ciertos fiscales y ciertas instancias judiciales como la Corte de Casación argentina encajonan procesos contra los represores, quienes pueden quedar en libertad por la falta de sentencia. Y lo peor, verdaderamente lo peor, es la perversión que mancha a sectores políticos y sociales que, de un modo o de otro, por acción o por omisión, fueron cómplices de la matanza y callan lo que saben y niegan al Otro lo que saben. Y luego, por qué omitirlo, la actitud pasiva de ciertos familiares que, ante todo por falta de medios, y luego por desánimo, cansancio, resignación, desesperanza o temor, todavía temor, depositan su no hacer en los organismos de derechos humanos. Y también, por qué omitirlo, ciertos organismos argentinos de derechos humanos que burocratizan el dolor o militan contra la búsqueda de los restos de los desaparecidos “para que sigan con sus compañeritos”. Así hacen tabla rasa de la historia personal de las víctimas y del lugar que ocuparon en la historia. Es la continuidad civil, bajo otras formas, del pensamiento militar.

La voluntad de corregir la memoria, como es notorio, viene de muy lejos. En el siglo V antes de Cristo, la sangrienta oligarquía de los Treinta prohibió en Atenas por decreto recordar la derrota militar que le infligiera Esparta. Cada ciudadano fue obligado a pronunciar el juramento “No recordaré las desgracias”. Pasan los siglos y los vencedores siguen reorganizando el pasado a voluntad. En el año de gracia de 1040 el monje Arnold von Saint Emmeram explicaba así el método que había elegido para escribir la historia del ducado de Baviera: “No sólo es pertinente que las nuevas cosas modifiquen las viejas; también es correcto, si las viejas son desordenadas, el de-secharlas por completo, e incluso, aunque estén bien ordenadas pero sean poco útiles, el enterrarlas con reverencia”. La voz de los vencidos es “desordenada y poco útil” en los manuales de historia al uso, cuyo marco de referencia esencial es el Estado. Numerosas víctimas de crímenes contra la humanidad fueron y son carne de olvido, “ese acuerdo con aquello que se oculta”, al decir de Blanchot. Los que falsifican la historia así, falsifican la vida y están presentes y activas las antiguas herencias de nuestra tan moderna, o posmoderna, civilización occidental, en la que los extraordinarios avances tecnológicos conviven o malviven codo a codo con genocidios nunca vistos.

Proliferan las teorías sobre la historia como relato y otras sobre todo lo contrario. De lo primero hay pruebas más que suficientes, algunas francamente ridículas. La historia del Partido Comunista soviético ha sufrido continuos liftings con el correr del tiempo y se convirtió en un acto de predicción del pasado. Es famosa la fotografía del estado mayor bolchevique tomada días después del triunfo de la Revolución Rusa, con Lenin en el centro, a su derecha una escalera y luego Stalin. El lugar de la escalera lo ocupaba Trotski, excomulgado por el Termidor stalinista. El acto tiene pretensiones mágicas y la voluntad de abolir la historia. De ahí la importancia fundamental de los archivos de la memoria. De ahí la importancia fundamental de esta reunión. La pretensión de mutilar la memoria cívica de todos los días corrompe su salud y despeja el camino a nuevos autoritarismos.

El imperativo moral de la memoria colectiva tiene hoy más urgencia que nunca y no faltaron en la Argentina y en otros países quienes entendieron esto muy temprano y crearon y ordenaron personalmente, sin apoyo oficial alguno y movidos por su moral ciudadana, informaciones utilísimas que se pueden ver por Internet. Estos archivos contribuyen a deshacer las artimañas de los asesinos de la memoria, como ésas que pretenden que no hubo cámaras de gas y que el primer pueblo ocupado por el nazismo fue el pueblo alemán. Si queremos que la barbarie no se repita y pase al reino del nunca más, no deberían, creo, ser archivos mudos para la sociedad civil y viceversa: habría que acercar sus contenidos a sectores sociales y políticos en los que hay no poco a despejar todavía.

¿Y se podrá alguna vez despejar mentes en el estamento militar para que obedezcan a lo ético y opongan la desobediencia debida a órdenes criminales? El capitán de navío Juan Carlos Rolón, miembro de un grupo de tareas de la Escuela de Mecánica de la Armada de Buenos Aires donde la marina desapareció a 5000 personas, declaró impávido: “Nos enseñaron que la tortura era una forma moral de combatir al enemigo”. Se recuerda el diálogo que Hannah Arendt sostuvo con un oficial nazi que admitió haber gaseado y enterrado a prisioneros con vida en el campo de concentración de Maidanek. La pregunta de la filósofa: “¿Se da cuenta de que los rusos lo van a colgar!”. La respuesta del nazi: “¿Por qué? ¿Yo qué hice?”.

Las dictaduras suprimen el testimonio de las víctimas, pero llevan sus propios archivos. En Auschwitz hay gruesos volúmenes que registran la muerte de los prisioneros gaseados. En la primera columna de cada página figuran el nombre, la edad y la nacionalidad de la víctima; en las dos restantes, hora y causa de la muerte. La hora es la misma a lo largo de páginas enteras, las 8.15, o las 8.30 o las 9.00 de la mañana. También se repite la causa de la muerte, “influenza” casi siempre. Este no es sólo un acto burocrático; sustituye la vida por una mentira de papel y muestra abismos de la condición humana. Se impone abrir esa clase de archivos. Pero ésta es una decisión de Estado y, lamentablemente, todavía hay gobiernos democráticos que no se atreven a disponer que se dé ese paso indispensable. Los familiares de los desaparecidos sólo conocen la dolorosa mitad del crimen. La otra yace oculta, custodiada por centinelas militares, policiales, eclesiásticos. Jacques Derrida habló del “mal de archivo”, pero ésos son los archivos del mal.

Que se me perdone la insistencia en subrayar la importancia de los testimonios orales, vehículos de una memoria que en ocasiones se transmite de generación en generación. Frente a Panamá –narra el periodista José María Pasquini Durán– hay una isla llamada San Blas en la que vive una etnia indígena. Una vez al año todos se reúnen y los ancianos cuentan a los jóvenes la historia de la etnia, que arranca del casamiento del Sol con la Luna, para que su memoria perdure. Los jóvenes comenzaron a emigrar y a quedarse en Panamá, pero mandan grabadoras a la isla para registrar el relato de los ancianos. Ahora la maravillosa historia que comienza con el Sol y la Luna está en casete y los jóvenes lo tienen en su casa entre los discos más recientes de pop norteamericano. Menciono esto porque en muchas sociedades del mundo no hay casete todavía.

En el año 1987 seguía yo exiliado en Francia y el diario recién nacido entonces para el que trabajo, Página/12, me pidió que cubriera el proceso a Klaus Barbie, el ex jefe de la Gestapo en Lyon, bautizado “El carnicero”. A una víctima que le detallaba sus crímenes, Barbie dijo: “Yo no me acuerdo de nada. Si se acuerdan ustedes, el problema es de ustedes”. Efectivamente: recordar y denunciar los crímenes contra la humanidad y exigir su castigo es un problema nuestro.