Non cercate di immaginare cosa sono stati questi anni per me. Non ci riuscireste. Ecco, mi sentivo come travolta da uno tsunami. Le onde erano molto più forti della mia volontà. L’unico punto fermo era Giovanni, la determinazione a stargli vicino e fare ciò che lui riteneva meglio per sé. Se solo si fosse rispettata la sua volontà, espressa sempre in maniera netta, senza tentennamenti, la sua agonia sarebbe durata molto meno. E invece il dolore di mio marito, la sua sofferenza, sono state prolungate in nome di non si sa bene cosa. Con un accanimento assurdo, feroce. Fino alla fine.
Voleva che la spina del respiratore fosse staccata. Era perfettamente lucido, sapeva con chiarezza cosa gli stava accadendo intorno e quali giochi inumani si portavano avanti sulla sua pelle. E non era affatto depresso, come qualcuno ha insinuato, come qualche giornale ha riportato. Voleva solo morire con dignità. E invece è stato costretto a morire di fame e di sete, tra sofferenze indicibili. E nessuno se ne è indignato, allora. Neppure i medici, neppure i giornalisti, neppure i benpensanti che invece, per il caso Englaro, hanno inondato col loro sdegno ipocrita le prime pagine dei giornali e i servizi dei telegiornali. Quasi ci fosse una disparità tra il morire per fame e per sete di Eluana, involucro inconsapevole di una vita che l’aveva abbandonata da troppo tempo, e il morire per fame e per sete di Giovanni, costretto a scegliere la strada più estrema, più dolorosa, più atroce, per vedere finalmente rispettata la propria volontà.
Non furono mai utilizzati, per Giovanni Nuvoli, i toni di raccapriccio sbandierati in recenti occasioni. Perfino la scelta delle parole fu accurata: le parole, se usate bene, sanno nascondere bene certi orrori, certe umane e disumane vergogne. Di Giovanni si scrisse che si era lasciato morire d’inedia. Un’espressione tiepida, quella giusta per non smuovere emozioni, turbamenti, indignazione. Un’espressione che farebbe pensare a condizioni fisiche sempre più compromesse, quasi che il non mangiare e il non bere non fossero una sua precisa, estrema volontà ma una conseguenza delle sue condizioni fisiche. Giovanni Nuvoli è morto in un modo indegno, e la sua scelta è stata la scelta obbligata di un uomo che aveva già sopportato ben oltre l’umanamente sopportabile. L’unica scelta possibile di un uomo che aveva visto costantemente negata la propria volontà, la volontà di disporre della propria vita, contro l’ostinazione del solito sedicente "fronte della vita", che si arrogava il diritto di rappresentare il suo vero interesse, anche contro la sua stessa volontà.
Quando il medico anestesista Tommaso Ciacca, su richiesta di Giovanni e dopo diverse visite sue e di numerosi specialisti, venne a casa per praticare il distacco del respiratore sotto sedazione, fu fermato dalle forze dell'ordine, su decisione della Procura e del Tribunale di Sassari. L'Italia dei fautori della buona tortura applaudì, dal giornale della Conferenza Episcopale Italiana fino alla stampa locale. Soltanto una settimana dopo si sono dovuti arrendere al coraggio e alla forza di un uomo costretto, dalla sordità e dall’ottusità di chi pretendeva di sapere cosa fosse giusto o sbagliato, ad interrompere l'assunzione di cibo e di acqua.
Un corpo umano, prigioniero di una inumana sofferenza, non aspetta una legge. Quando mio marito decise di porre fine a quella sofferenza, ci ritrovammo la casa accerchiata dai carabinieri. Come Beppino Englaro fui accusata e abbandonata. Accusata di interpretare al contrario la volontà di mio marito, le sue parole scritte con lo sguardo sul cartellone in plexiglas che usavamo per comunicare, la sua determinazione a “fare presto”. Quel corpo in quel letto non era più mio marito, era la prigione di mio marito. E solo dalle finestre di quella prigione, dagli occhi, riusciva a comunicare la sua disperazione muta e terribile.
La sua malattia cominciò in sordina, nel 2000: un po’ di stanchezza, un certo fastidio nel camminare. Facevamo lunghe passeggiate, all’epoca, e quella difficoltà ci preoccupò. Giovanni consultò il nostro medico, fece delle analisi, e il medico lo ricoverò in un ospedale vicino. E lì scoprirono che aveva la Sclerosi Laterale Amiotrofica. Un nome difficile, che faceva paura. Ma io, che non la conoscevo, pensai che quel “laterale” significasse che colpiva un solo lato del corpo, e dunque non poteva essere così grave, così drammatica. Invece era lo tsunami che stava arrivando a casa nostra. La SLA è una malattia terribile, con un decorso rapidissimo, molto più rapido della Sclerosi Multipla. E’ una patologia degenerativa che colpisce un gruppo specifico di cellule del midollo spinale causando una progressiva paralisi degli arti e dei muscoli deputati alla deglutizione e alla parola. Una tragedia fino a quel momento per noi inconcepibile: entro sei mesi Giovanni perse il controllo delle gambe, aveva bisogno di essere aiutato e sostenuto nel camminare; qualche mese ancora e non solo non camminava più ma non riusciva più neppure a portare il cibo alla bocca. Perfino parlare era diventato difficile, e non riusciva a parlare bene, io riuscivo a capire quello che desiderava, ma poi, col progredire della malattia, perse anche la motilità della lingua. Per comunicare ci inventammo un cartello, una specie di primitivo precursore del My Tobii, il computer che permette con il solo movimento degli occhi di selezionare lettere o intere parole su una tastiera virtuale visualizzata sullo schermo, trasformandole in parlato attraverso un sintetizzatore vocale. Invece il cartello era in plexiglas, con lettere attaccate sopra, quelle adesive che si acquistano in cartoleria, A, B, C, fino alla Z, e poi anche i numeri. Il cartello era trasparente, si metteva fra lui e la persona che leggeva e si guardavano, attraverso il cartello, gli occhi suoi. E così si capiva quello che lui chiedeva, si diceva: stai dicendo A? E lui faceva un battito di ciglia per assentire.
Aveva 47 anni ed era sempre stato un uomo attivo, uno sportivo, pieno di energia. Prima della malattia era un ragioniere elegante che faceva il rappresentante di commercio ma anche uno sportivo, un arbitro. Alla fine pesava venti chili: un mucchietto di ossa e un po’ di pelle. Ma un cervello lucidissimo, un pensiero costantemente vigile. In fondo, qualche volta ho pensato che il calvario di Giovanni fosse in qualche modo imputabile a me, alla mia insistenza perché si ricoverasse quella prima volta che ebbe una crisi respiratoria. Era il 2003, in tre anni la malattia gli aveva mangiato i muscoli delle gambe, delle braccia, della lingua. E quella notte toccò ai polmoni.
Giovanni, sebbene fosse uno sportivo, era un fumatore. E dopo essersi ammalato continuò a fumare: non potevamo certo proibirgli la sigaretta. La SLA era ben più grave, più drammatica di un tumore. Sicché quella notte mi svegliai sentendo il suo respiro corto, lo pregai di andare in ospedale. Giovanni non voleva. Mi disse: lasciami morire qua, lasciami morire così. Ma io non volevo vederlo morire soffocato, perché è terribile morire soffocati, sono terribili quei cinque, sette minuti di strazio necessari a morire. E io non avrei potuto aiutarlo, avrei dovuto restare lì a guardare, impotente, senza poter fare nulla, perché io non sono in grado di aiutare una persona morente in quello stato, non ho le capacità necessarie, e invece avrebbe dovuto essere aiutato, sedato in qualche maniera. Dunque lottai, lo convinsi ad andare in ospedale e chiamai il 118. Ad Alghero, ad Olbia, a Sassari non c’era possibilità di ricovero. Lo portarono ad Oristano, e lì arrivò in coma. Lo ricoverarono in rianimazione e ci rimase otto mesi, sebbene dallo stato di coma fosse uscito dopo le prime cure. Era pienamente cosciente, pienamente lucido, e convocò subito i medici, i primari, per esprimere a loro la sua ferma volontà di non voler essere intubato, di non voler essere attaccato alle macchine. Poi una mattina arrivai e lo trovai tracheotomizzato. Gli avevano detto “Starai meglio, starai meglio”, e con questo “starai meglio” si era ritrovato con un tubo in gola, un tubo che non voleva. Il primo di tanti.
E io mi sentivo in colpa, per tanto tempo mi sono sentita in colpa per averlo convinto al ricovero. Perché da quel ricovero, da quel momento preciso, da quel primo tubo inserito in gola, Giovanni Nuvoli non è stato più Giovanni Nuvoli ma una malattia. Era sempre quello che vuole staccare le macchine, quello che ha la SLA, sempre quello, mai Giovanni. Si avvicinavano a lui e chiedevano: “Beh, come va, come va?” Non prendevano neanche il cartello, perché non lo sapevano neanche leggere, e dicevano: “Sì, sì, va bene, va bene”. Poi arrivavo io e leggevo il cartello: “Oggi ho mal di stomaco” e nessuno aveva preso il cartello per permettergli di farsi capire. Dunque lui era un numero, un letto occupato, perché un letto in rianimazione costa 1.500 euro al giorno, a casa ne costava non più di 400, e forse faceva comodo tenerlo lì. Sulla sua pelle si sono giocate questioni ideologiche, questioni religiose, questioni etiche, dimenticandosi che si trattava di un uomo, un uomo vivo, con i suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi dolori.
Gli infermieri entravano nella sua stanza al mattino, per esempio, e non lo salutavano. E Giovanni ci restava male. Così un giorno me lo raccontò ed io chiamai uno degli infermieri, gli chiesi perché non avessero neppure la cortesia di salutare mio marito al mattino, quando entravano nella sua stanza. E la sua risposta fu agghiacciante: “E lei crede che stiamo lì a salutare? Ma noi siamo abituati alle persone in coma!” Così come fu agghiacciante la risposta di un primario quando chiesi che, dopo il ritorno a casa di mio marito, gli infermieri venissero a casa per tre ore al mattino e tre ora la sera: “Signora, noi le diamo un’ora dei nostri infermieri specializzati, per il resto se lo smerda lei.”
E questi erano gli uomini che dicevano di volergli bene, quelli che dicevano di essere “per la vita”. Questi erano i benpensanti legati al Vaticano, quelli che dicevano che la vita è un miracolo e dev’essere vissuta, quelli che pensano che costringendo un uomo a restare attaccato ad una macchina si guadagnano il paradiso. E per suffragare il loro pensiero gettano discredito perfino sulla moglie angosciata di un uomo che non riesce più ad esprimere la propria volontà se non attraverso un cartello di plexiglas letto da quella donna. E per gettare discredito dicono cose indegne, infamanti. Dissero, ad esempio, che io leggevo al contrario: mio marito intendeva dire una cosa e io invece dicevo l’esatto opposto. Eppure nessuno di questi signori si prese mai il disturbo di imparare a leggere il cartello, per poter comunicare direttamente con mio marito senza il mio aiuto. Erano prassi quotidiana le insinuazioni, i processi alle intenzioni ed il comportamento paternalistico di una classe medica sempre più attenta a se stessa che ai diritti dei propri assistiti. Un oncologo, dopo aver confermato la volontà espressa da Giovanni di volere che si staccasse la spina al ventilatore polmonare, si e' avventurato in una improbabile e arrogante interpretazione delle sue vere intenzioni. Alcuni hanno sostenuto che mio marito non poteva volere che gli staccassero il respiratore, perché aveva accettato medicinali per un doloroso trombo alla gamba. Come se voler morire senza soffrire equivalga a voler vivere a tutti i costi.
E quando finivano i medici cominciavano i preti. Il cappellano fece intendere ai giornalisti di parlare con Giovanni, quando andava a dargli la comunione. Diceva: Nuvoli è amante della vita, ama la vita perché è un dono di Dio, desidera vivere. E invece non era vero nulla. Giovanni mi disse: mi dà la comunione, ma non mi chiede nulla ed io non gli dico nulla, perché nessuno viene a leggere il cartello. E poi quella farsa su L’Avvenire, quella lettera aperta stampata sul giornale senza neppure prendersi il disturbo di inviarla anche a lui, in ospedale. Un articolo vergognoso, parole altezzose e accusatorie da parte di chi rappresenta la gerarchia vaticana, la stessa che, sorda ai più elementari dettami della solidarietà e della pietà umana, chiuse le porte davanti al feretro di Piergiorgio Welby. E fra le righe mille insinuazioni, prima fra tutte quella sulle decisioni prese da Giovanni, quasi a voler intendere che mio marito fosse stato strumentalizzato.
Solo dopo la visita di Marco Cappato e di Tommaso Ciacca, un medico anestesista che si era reso disponibile ad esaudire la volontà di mio marito, preti e vescovi si avvicendarono al suo capezzale, forse temendo di essere scippati del predominio ecclesiastico sulla vita e sulla morte. Finché un giorno, al sacerdote che ripeteva la solita cantilena sulla vita che deve essere vissuta perché è un dono di Dio, mio marito ha risposto: io sono nato da solo e morirò da solo, e dunque se davanti a Dio andrò da solo, la mia vita me la devo gestire io; e se la religione e la legge italiana affermano che non bisogna manipolare l’embrione, perché manipolate me, che non sono più un embrione e sono un uomo?
Forse avevano paura di trovarsi faccia a faccia con la verità, con la verità scomoda di un uomo che chiedeva di staccare le macchine e di morire con la dignità che gli avevano portato via. O forse soltanto per affermare un principio teorico, astratto. E per affermare quel principio teorico, astratto, diventava tutto lecito, anche la manipolazione della volontà di Giovanni, anche quel seminare dubbi e discredito sulla mia interpretazione di quella volontà.
Per superare quel discredito, chiedemmo il My Tobii, il sintetizzatore vocale. Lo chiedemmo per tre anni, ma costava troppo ed era “scomodo”: Giovanni avrebbe potuto esprimere direttamente il suo pensiero, e in molti non erano assolutamente disposti a starlo ad ascoltare. Poi, quando arrivarono i giornali e le televisioni, quando i giornalisti cominciarono a sollevare clamore sulla vicenda, la Direzione Sanitaria si precipitò a comprare il My Tobii. Costò 22.000 euro, e finalmente mio marito riuscì a dire quanto aveva da dire. Ma vennero sollevate altre questioni, altri dubbi. Dapprima sul sintetizzatore stesso: sono venuti il PM, il giudice, il cancelliere e uno specialista dell’Università di Sassari per dichiarare che il My Tobii era una macchina autentica e che non c’erano alterazioni nel suo funzionamento. Poi sull’ufficialità formale di quanto Giovanni diceva attraverso il sintetizzatore. Chiedemmo alla Polizia Municipale di autenticare la sua “firma”, ma non si sono resi disponibili. Allora abbiamo chiamato i notai, e i notai hanno risposto che l’Ordine dei Notai non poteva autenticare le dichiarazioni di Giovanni Nuvoli perché erano dichiarazioni di morte. Sicché siamo dovuti ricorrere al tribunale e il tribunale mi ha nominata suo tutore.
Una guerra continua, e non solo, non prevalentemente contro la malattia. Perché la SLA è una malattia senza ritorno, dalla SLA non si guarisce: si può solo tentare di ridurne, in maniera infinitesimale, l’implacabile avanzata. Distrugge il corpo eppure lascia il cuore sanissimo, il cervello sanissimo, e poi ad un certo punto ruba anche la vista. Il nervo ottico continua a funzionare, gli occhi continuano ad essere sani, ma le palpebre non si aprono più. E lui, che ormai comunicava solo col battito delle palpebre, aveva il terrore di quel momento, del momento in cui gli sarebbero mancati anche gli occhi e, dalla clausura del proprio corpo, non avrebbe più potuto esprimere se stesso, la sua volontà, i suoi pensieri.
E alla guerra che già combatteva ogni giorno, ogni minuto, si sovrapponevano altre guerre. Quella contro la sua permanenza nel reparto di rianimazione, per esempio. Ce lo tennero otto mesi, con la possibilità di ricevere visite solamente per due ore al giorno, e al massimo due persone. Eppure Giovanni era sveglio, cosciente. E avrebbe avuto bisogno di sentirsi intorno le persone che gli volevano bene, la famiglia, gli amici. Invece era tenuto in rianimazione, tutto il giorno da solo tranne per quelle due ore in cui le visite erano permesse. Così, per tornare a casa, perché gli consentissero di tornare a casa, disse ai giornalisti di aver cambiato idea, di non volere più essere staccato dalle macchine. Fu una sorpresa anche per me, e quando restammo soli gli chiesi cosa gli avesse fatto cambiare idea. “Guarda che io il tempo per pensare, qui dentro, ce l’ho. Se continuo a dire che io non voglio la macchina, non mi fanno andare a casa. Se invece dico che la voglio, mi fanno andare a casa. E a casa mi staccheranno questa maledetta macchina.”
La verità è che la volontà di Giovanni Nuvoli non è stata mai rispettata, si è fatto di tutto per non rispettarla. E quando finalmente tornò a casa, dove era stata allestita una camera adatta alle sue necessità, con una piccola rianimazione, gli ostacoli si moltiplicarono. Si mobilitò perfino il senatore Piergiorgio Massidda, chiedendo che Giovanni fosse sottoposto ad un esame psichiatrico, per verificare che la sua volontà non fosse condizionata, che le sue facoltà mentali non fossero obnubilate. Così venne uno psichiatra, e quasi scusandosi spiegò che sapeva benissimo che la malattia non comprometteva la sua mente, i suoi pensieri, le sue capacità psichiche, e tuttavia era stata chiesta questa perizia, dunque se Giovanni fosse stato d’accordo, l’avrebbe fatta. Mio marito non aveva nulla da obiettare, anzi, sperava che fosse un modo per porre fine a tutti i dubbi che molti continuavano a sollevare. Così lo psichiatra fece questa perizia e alla fine verbalizzò quel che tutti sapevano benissimo: Giovanni era lucido ed era perfettamente in grado di intendere e di volere, anche quando esprimeva la volontà di staccare il respiratore artificiale.
Ma faceva più comodo a tutti far finta di non capire. Perfino Mario Melazzini, il presidente dell’associazione nazionale dei malati di SLA, fece finta di non capire. Salvo che, quando poi parla di se stesso, Melazzini rivendica il diritto di decidere per la propria vita, il diritto di rifiutare la tracheotomia. L’ha perfino lasciato già scritto. Non vuole la macchina, non vuole il tubo conficcato nella gola.
Invece su Giovanni i tubi si moltiplicavano: aveva la PEG, il sondino che entra direttamente nello stomaco, aveva la tracheotomia, il catetere, il port-a-cath, un dispositivo biotecnologico che permette di avere un accesso venoso centrale sempre disponibile… E intubato così, un uomo può vivere all’infinito, vive all’infinito, controllatissimo, ogni funzione monitorata… e le medicine pronte per ogni evenienza. Si vive all’infinito, sì… ma in quella maniera è vita? Perché questo è il dramma: la SLA permette di sopravvivere anche vent’anni, trent’anni, quarant’anni. E si finisce col morire per un’infezione. Un’infezione causata magari proprio da uno dei tubi inseriti ovunque.
E Giovanni non voleva morire in questo modo. Aveva consapevolezza del proprio corpo, di cos’era diventato. E ogni tanto chiedeva una cosa terribile: pretendeva che gli fosse portato lo specchio. Lo specchio grande, quello del bagno, perché voleva guardarsi interamente. E quando chiedeva lo specchio, di colpo piombava un silenzio cupo, peso, e in quel silenzio cupo, peso, andavamo a prenderlo, con la schiena bassa. Non voleva che fossi io a descrivergli il suo corpo, voleva vederlo. E mentre si guardava, in quel gran silenzio, io guardavo il suo viso. E se gli cadeva una lacrima, mi faceva capire: non toccarla questa lacrima, perchè questo sono io…Ecco, io ho visto tante cose terribili, ho vissuto tante cose terribili, ma una delle peggiori era sentir chiedere lo specchio, guardarlo mentre si guardava e capiva perché tanti suoi amici non venivano più a trovarlo, perché tanti dicevano “Preferisco ricordarlo com’era”.
Ma, per fortuna, c’era anche chi riusciva a guardare l’uomo oltre quel mucchietto di ossa, oltre quella pelle trasparente. Venivano e magari qualcuno usciva fuori a piangere e diceva: Maddalena, non ci riesco, non riesco ad entrare… Perché qualcuno aveva anche paura e io gli dicevo: non preoccuparti, ci dà coraggio lui, è lui che dà coraggio a noi. E alla fine, quando andavano via, si sentivano sollevati, contenti, e tornavano. Alcuni tornavano anche due volte alla settimana. Ed erano quelli che rispettavano il pensiero di Giovanni, rispettavano la sua volontà. Capivano che la fine sarebbe stata una liberazione, e lo capivano perché erano veramente amici, e quella sofferenza la portavano con lui.
Così come quella sofferenza la capivano i medici dell’equipe che Giovanni aveva chiamato intorno a sé. Medici che si erano dichiarati disponibili ad aiutarlo nelle sue determinazioni attraverso il trattamento di fine vita. Otto medici, coordinati dal dottor Tommaso Ciacca, che aveva seguito mio marito fin da quando era ancora in ospedale. Anche gli altri medici erano venuti in ospedale, spesso in incognito, per evitare spiacevoli discussioni con il personale: sicché si presentavano come colleghi di lavoro, arbitri, allenatori.
I medici ebbero numerosi colloqui con Giovanni, sembrava ormai che si fosse davvero giunti alla fine, a quella possibilità di una fine dignitosa e senza sofferenze che mio marito desiderava.
Il 7 luglio, il dottor Ciacca si presentò dai carabinieri di Alghero, per consegnare al procuratore capo di Sassari un'informativa su quello che aveva intenzione di fare: staccare il ventilatore martedì 10 luglio alle 23. I carabinieri lo trattennero e il capitano Francesco Novi lo interrogò fino alle 2.30 del mattino. Ma a mezzogiorno di quel 10 luglio, il medico fu richiamato dai carabinieri: la procura aveva intenzione di fare tutto quanto in suo potere per impedire al dottor Ciacca di compiere la volontà di Giovanni. Così ci siamo ritrovati la casa circondata dai carabinieri. Non sapevo che fossero carabinieri, perché erano tutti in borghese. Era un giorno di sole e faceva caldo, sicché sono uscita a chiedere se avevano bisogno di qualcosa, se desideravano almeno un po’ d’acqua. Invece aspettavano che arrivasse Tommaso per bloccarlo. E lo hanno fermato proprio lì, all’ingresso del giardino. Non volevano neppure farlo entrare per comunicare a mio marito che la procedura non sarebbe neppure potuta iniziare. Infine lo hanno fatto entrare, ma hanno preteso che stesse lontano dalla macchina, dall’altra parte della stanza: neanche temessero che staccasse la spina proprio quel giorno, davanti ai loro occhi. Il capitano Novi entrò nella stanza con me e con Tommaso, e avvisò mio marito che non si sarebbe mai allontanato. E a quel punto Giovanni decise di non voler più mangiare né bere.
Ci fu qualche telefonata, qualcuno che si offrì ancora di aiutarlo. Aiutarlo a compiere in maniera meno orrenda il suo percorso di fine vita, in maniera meno terribile che non morendo per fame e per sete. Ma non venne nessuno, e il lunedì seguente Giovanni decise di non alimentarsi più. In mattinata venne il medico, e scrisse nella cartella clinica che da quel giorno non si doveva più dargli cibo né acqua. Così, come fosse una cosa normale, come se non fosse una atrocità inumana che si consumava sotto gli occhi dei medici benpensanti, dei giornalisti, della gente per cui Giovanni Nuvoli non era più un uomo ma un campo di battaglia. E nessuno di loro si indignò, nessuno di loro si scandalizzò per quella decisione. Nessuno parlò di alimentazione forzata, di sacralità della vita, in quella occasione. Finsero di non vedere e non capire. Finsero che quella non fosse una scelta lucida e consapevole di un uomo che non avevano saputo ascoltare, capire. Finsero di credere che mio marito non si alimentasse più a causa di un aggravarsi della malattia, e che questo suo digiuno non fosse un atto, quello più estremo, per riappropriarsi del proprio diritto di scegliere. Ecco, questo è, in fondo, quello che li spaventa di più: che un uomo possa scegliere. E pur di non ammettere che un uomo può scegliere, ha il diritto di scegliere, preferiscono girarsi dall’altra parte, fingere di non capire, di non vedere. E poi era tanto più comodo lasciare che Giovanni morisse di fame e di sete, tanto più comodo: nessuno di loro avrebbe dovuto prendere una decisione, nessuno di loro avrebbe corso il rischio di subire un’indagine, nessuno di loro avrebbe messo a repentaglio il proprio lavoro o la propria facciata di “paladino della vita”. E lasciarono che un uomo che aveva già subito tanto, un uomo che pesava venti chili e che la malattia aveva sfiancato, logorato, consumato, sopportasse altri sette giorni di calvario. Perché nulla fu facile, neppure quello. Nulla fu breve e senza dolore, neppure quello.
Perché il dolore arrivò subito, fin dal primo giorno. Ma la sua volontà rimase sempre ferma, granitica: chiese perfino che la sedazione gli venisse somministrata senza l’aiuto della fisiologica, perché non si prolungasse neppure di un’ora, neppure di pochi minuti, la sua sofferenza. Eppure, anche per sedarlo, si aspettò il terzo giorno, quando i dolori erano ormai atroci, il colorito era terribile, la pressione aveva sbalzi continui e Giovanni aveva la tachicardia, la febbre… Allora finalmente hanno deciso di alleviargli almeno gli ultimi tormenti. E abbiamo dovuto salutarci.
Ed è stato terribile salutarci, perché sapevo che non stavo salutando un uomo che parte per una vacanza, ma un uomo che parte per un viaggio da cui non farà ritorno, e non ci saremmo più rivisti. Ecco, quando qualcuno mi dice “Mi immedesimo” rispondo: e in cosa, in cosa ti immedesimi? Non ci si può immedesimare, perché in quel corpo sfinito, in quelle ossa coperte da un po’ di pelle, c’era Giovanni. E Giovanni vedeva, sentiva, era lucidissimo, sentiva dolore, sentiva tutto, tutto ciò che girava intorno, tutti i sentimenti c’erano, tutti i sentimenti di un uomo normale, non di un uomo malato. Io non ho mai pensato: quest’uomo è malato. E non ero preparata a lasciarlo andare. No, nessuno credo sia preparato a salutare il marito che non rivedrà più, non credo che ci sia una persona pronta. Io ho fatto una gran fatica. Non riuscivo ad entrare nella stanza. Il medico mi diceva di andare, mi diceva che aspettando avremmo solo prolungato le sue sofferenze, ma io non riuscivo. Mi ci volle un’ora a ritrovare la mia finta serenità, prima di entrare, e così lo salutai come si saluta un amico che parte per un lungo viaggio. Sentivo le orecchie ronzarmi. Era un saluto infinito, e in questa infinità avrei voluto gridare tante cose. E invece ho continuato a dire: non andare, ti prego, torna indietro, io ci sono, ti aiuterò. Però, via via che parlavo, facevo meno fatica, Giovanni mi infondeva il suo coraggio. Mi disse: “Sono veramente sereno, voglio andare. Sii serena anche tu, voglio rivederti serena e sorridente come quando ci siamo conosciuti”. Ed io ebbi la piena consapevolezza di perdere un grande uomo, un uomo coraggioso. Un uomo di cui ero innamorata molto più profondamente che all’inizio, perché quella sofferenza che avevamo portato insieme aveva dato ancora più profondità, ancora più spessore ai sentimenti.
Mi hanno arricchito di un bagaglio di grande forza, quei giorni, quei mesi, quegli anni. Mi sento serena, l’ho accompagnato e ho lottato con lui. Ma il coraggio era il suo, non il mio. E a guardare indietro, a quei giorni, a quegli anni, mi chiedo davvero come ho fatto a sopportare così a lungo e così atrocemente. Eppure, tutte le mattine riuscivo a sorridere, riuscivo ad andare avanti e magari tante notti me le passavo seduta a scrivere o a leggere oppure a pensare e a guardare il soffitto. Ma il coraggio era quello di Giovanni, era lui a trasmetterlo a me. Un coraggio che non ha mai vacillato, neppure un istante.
Neppure quando lo sedarono e, sempre per non rischiare, non gli diedero una dose sufficiente a farlo dormire fino alla fine. Ogni tanto Giovanni si risvegliava fra dolori atroci, perché lo stomaco, divorato dagli stessi succhi gastrici, aveva emorragie terribili. Allora gli davano una nuova dose di sedazione, ma intanto quei minuti di ritorno alla lucidità comportavano un calvario atroce, sofferenze indicibili. Fino a che i medici hanno chiamato la rianimazione di Sassari e hanno chiesto di poter aumentare la dose perché dormisse fino alla fine. Le sue ultime parole sono state: fate presto, fate presto, vado, vado.
E infine il cuore cessò di battere. Erano le dieci e mezzo della sera del 23 luglio. Il medico accertò la morte e, uscendo dalla stanza, disse: il cuore ha cessato di battere. E mi abbracciò. Ma come si può dire che un uomo è morto di arresto cardiaco, senza dirne la ragione, senza dire la verità che si nasconde dietro certe espressioni pietose? Giovanni è morto di fame e di sete, perché gli è sempre stata negata la possibilità di morire in maniera più dignitosa. Ed è morto collegato a quella macchina, a quel respiratore che aveva sempre rifiutato, che aveva sempre voluto venisse staccato. Eppure non potemmo staccarlo neppure dopo che il medico ebbe accertato il decesso. Dovemmo avvisare il PM, perché fosse il PM a verbalizzare che il respiratore non era mai stato staccato. Così chiamammo e il PM venne dopo tre ore. E in quelle tre ore la macchina continuò a ventilare, continuò a gonfiare e sgonfiare un corpo martoriato che neppure ora riusciva a trovar pace.
Eppure di questa vergogna nessuno scrisse, nessuno volle scrivere. Usarono parole pietose, toni smorzati, a nascondere il dramma che Giovanni aveva vissuto, il calice amaro che aveva dovuto bere e nel quale, fino alla fine, avevano continuato a versare veleno. E invece pochi mesi dopo sollevarono un gran clamore sul caso Englaro. Perché c’è questo, da dire: i nostri politici si sono accorti di Eluana in un momento politico particolare nella nostra Italia e hanno strumentalizzato l’intera vicenda senza alcuna vergogna, fino al parossismo. Fino a rendere dichiarazioni pubbliche disgustose, come quella del nostro Premier, che ha affermato che Eluana avrebbe potuto procreare. Io non so un uomo come possa permettersi di arrivare a questo punto. Come possa giungere ad affermazioni così indecenti, così insopportabili.
Suo padre, Beppino, ha avuto un gran coraggio, fino all’ultimo. Ed è stato giusto anche non permettere ai giornalisti di vedere in quale stato si fosse ridotta sua figlia, non dare in pasto all’opinione pubblica l’immagine di oggi di Eluana. Forse avrebbe avuto maggiori possibilità di essere compreso. Ma è stato giusto che fosse così, che proteggesse l’intimità di sua figlia fino all’ultimo.
Invece mio marito ha voluto mostrarsi, far capire alle persone come può ridursi un uomo, un uomo di un metro e ottantacinque, uno sportivo, consumato dalla malattia fino a pesare venti chili. E volle perfino che la foto sul necrologio lo ritraesse così, com’era diventato, e non com’era stato.
Il giorno dei funerali di mio marito, in chiesa, davanti alla bara chiusa, mia figlia Silvana, che aveva portato con noi quella sofferenza, raccontò del coraggio di certi uomini costretti, loro malgrado, a diventare eroi. Sono uomini normali che forse non avrebbero mai voluto diventare eroi. Sono quegli uomini ai quali non è dato di vedere esauditi i propri desideri, spesso semplici e legittimi. E spesso la colpa, mascherata da valori, è di altri uomini, uomini decisamente più piccoli.
Per questo oggi sono serena, per questo ero serena perfino quella notte, mentre aspettavamo il PM per riuscire finalmente a staccare quella macchina che continuava ostinata a pompare aria nel suo corpo, con la stessa ostinazione di coloro che credevano che solo quel corpo restasse di una vita, di un uomo.