29 aprile 2009

I poveri pagano sempre


Arrivano i soldi per il terremoto, dai poveri
di Bianca Di Giovanni
All’Abruzzo per ora arriverà un miliardo e 100 milioni. L’anno prossimo 539 milioni. Il resto degli 8 miliardi annunciati arriverà tra il 2011 al 2033, con stanziamenti progressivi (330 milioni nel 20011; 468 l’anno dopo, 500 nel 2013) che a un certo punto decrescono, fino a toccare 2,9 milioni di euro tra 20 anni. Come dire: chi vivrà vedrà.

Non è l’unica beffa contenuta nel decreto per la ricostruzione, firmato martedì dal presidente della Repubblica.

Agli stanziamenti, infatti, si provvede con corrispondenti tagli al Fas (fondo aree sottoutilizzate), al bonus famiglia (300 milioni), alla spesa farmaceutica e grazie a nuove entrate garantite da lotterie e slot machines. Insomma, pagano i poveri e il sud. Il ministro Giulio Tremonti si era vantato che non avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani. «Nessuna nuova tassa», aveva declamato rassicurando Confindustria. E visto che c’era ha pensato di mettere le mani nelle tasche (semi-vuote) dei più poveri.

C’è un altro combinato disposto, poi, che rischia di trasformare l’operazione Abruzzo in una vera manovra in favore dei «protetti». Presentando le misure, infatti, Tremonti non ha escluso l’eventualità di un’altra sanatoria fiscale: quella sul rientro dei capitali illegalmente esportati. Risorse frutto di riciclaggio, di corruzione e di evasione, «ripulite» con un obolo alleggerito.

È destinato ai più bisognosi, ai nuclei in difficoltà, a chi ha un figlio handicappato a carico, o un anziano. Quello strumento (il primo a considerare il reddito familiare, e non del singolo, e per questo contrabbandato come inizio del quoziente familiare tanto caro alle formazioni cattoliche). Era pensato per una platea di 6,45 milioni di famiglie, che potevano aspirare a un contributo tra i 100 e i mille euro, per una spesa complessiva di quasi due miliardi. Come mai sono «avanzati» 300 milioni? Come mai è bastato un miliardo e 700 milioni invece dei due stimati? Ci sono meno poveri del previsto (anche in tempo di crisi) o hanno sbagliato i calcoli all’inizio? La verità, purtroppo, è un’altra, e somiglia molto alle vicende legate alla social card (ancora i poveri).

Per ottenere quel bonus, infatti, è stato costruito un percorso con tali e tanti ostacoli, che ottenerlo equivale a vincere un terno al lotto. Nel sito www.nelmerito.it l’economista Franco Osculati lo definisce «lunare». Prima di tutto è a richiesta (non automatico). La domanda è a carico del datore di lavoro che «eroga il beneficio, secondo l’ordine di presentazione delle richieste nei limiti del monte ritenute e contributi nel mese di febbraio 2009. - spiega Osculati - Nel caso i sostituti d’imposta non provvedano, per insufficienza di tale "monte", gli interessati potranno ri–presentare istanza entro giugno all’agenzia delle entrate. In aggiunta, a cura dei sostituti, delle domande dovrà rimanere traccia nei modelli 770, dovrà essere data informazione, entro aprile, all’Agenzia delle entrate e dovrà essere conservata copia per tre anni». Una vera gimcana, che dovrebbe essere ancora in corso. ma siccome del bonus non parla più nessuno, si suppone che le richieste termineranno. Senza domande, scompaiono anche i poveri e le emergenze.

Una buona fetta delle risorse da utilizzare subito proviene dai giochi (500 milioni). Anche qui il rischio è che si sfruttino i poveri, di solito dipendenti dal vizio delle scommesse. Il ministero prevede «nuove lotterie ad estrazione istantanea», «ulteriori modalità del gioco del lotto», «l’apertura delle tabaccherie anche nei giorni festivi». Il decreto fa cenno anche all’ipotesi di giochi da attuare nei supermercati. È prevista infatti «l’attivazione di nuovi giochi di sorte legati ai consumi». Ma il grande affare arriverà con le nuove slot machines e con nuove possibilità di poker on line. L’introduzione di macchine di nuova generazione, con il collegamento diretto all’anagrafe, consentirà di incassare per ogni macchinario cambiato una una tantum di 15mila euro: pr attrarre più giocatori, potrebbe abbassarsi la giocata minima a 50 centesimi (oggi è 3 euro) e alzarsi la vincita massima da 10 a 50mila euro.

24 aprile 2009

Il G8 a l'Aquila terremotata


Quel che il premier non ha detto.
Già buttati 320 milioni. «La Sardegna è ferita»
Berlusconi tira fuori un'altra delle sue: «Il vertice del G8, previsto dall'8 al 10 luglio a La Maddalena, sarà trasferito a L'Aquila», come «segno di vicinanza alle popolazioni colpite dal terremoto».
Il governatore sardo Cappellacci a denti stretti: «La decisione creerà problemi tecnici».
Il sindaco de La Maddalena è sconcertato: «Cosa dirà ora la Corte dei Conti? I lavori rimarranno a metà?».
Da Angela Merkel: «Il G8 e le misure di sicurezza non si improvvisano».

La main conference dove i grandi del pianeta avrebbero dovuto confrontarsi è già pronta. Così come l'hotel che aspettava Obama, unico dei capi di Stato che per motivi di sicurezza avrebbe soggiornato sull'isola (per gli altri c'era una lussuosa nave). Entrambe queste strutture sono dentro l'ex arsenale militare. Per bonificarlo sono serviti 30 milioni di euro, per riconvertirlo all'uso civile altri 140. L'utilità di queste opere è stata cancellata dalla decisione del premier di abbandonare la Maddalena. Quei soldi sono stati destinati all'arcipelago dall'Unione europea, come intervento nelle cosiddette aree svantaggiate (fondi Fas). Se non ci fosse stata l'urgenza del G8, questi soldi sarebbero tornati utili per modernizzare la logistica portuale. Quando Berlusconi parla di “risparmio” nel cambio di sede, non conteggia questo spreco.

L’umiliazione
L'arcipelago è stato umiliato, anche se gran parte dei 320 milioni dei fondi Fas sono stati investiti in infrastrutture durature. Prodi e l'allora governatore Renato Soru avevano scelto la Maddalena per ospitare il G8 e conclamare così la rinascita di questa terra incantata, per 35 anni soggiogata dalla presenza dei militari americani nella base di Santo Stefano. Incassata la vittoria elettorale con l'amico Ugo Cappellacci, adesso Berlusconi fa il padrone, toglie la vetrina, i soldi, il lavoro. «Tutta la Sardegna è ferita», contesta Angelo Comiti, sindaco dell'arcipelago, che nei giorni scorsi aveva pure ricevuto le delegazioni dei paesi attesi per il vertice, dall'India alla Cina e anche l'Egitto. Eppure, quando ieri sera ha incrociato Cappellacci, cercando di scuoterlo, ma ha trovato solo accondiscendenza verso la volontà del premier: «Perdiamo questa prestigiosa vetrina, e con essa centinaia di posti di lavoro stagionali. Ma che governatore è uno che non si fa sentire davanti a una vicenda simile?». Risposta: non è un governatore, ma il figlio del commercialista del premier. Il sindaco cerca regole in una vicenda che le ha calpestate: «Vorrei che la Corte dei conti si esprimesse. L'Europa ci ha dato dei soldi destinati a determinati scopi, vincolati a impegni precisi, come si legge sulle ordinanze firmate dallo stesso Berlusconi. Adesso quelle spese sono diventate fasulle: chi ne rende conto?».

Cosa è successo
Per capire quanto accaduto bisogna mettere in fila alcune cose. Anzitutto la ritrosia del presidente del consiglio sul vertice in Sardegna, sito scelto dal precedente governo nazionale e regionale. Voleva il G8 a Napoli, per celebrare la città liberata dalla monnezza. Bertolaso lo sconsigliò, e la conquista dell'Isola lo convinse a sostenere la Maddalena e a fare di persona i sopralluoghi. Questa titubanza ha intralciato i lavori, tanto che vi erano dubbi sulla puntualità delle consegne. Ostacolata anche dalla megalomania di Berlusconi, che aveva dilatato l'appuntamento: non più un G8, ma un G42, tanti sono infatti i Paesi esteri invitati, con ben 24 capi di Stato e 18 delegazioni. Manovrare l'afflusso sull'arcipelago sarebbe stato complicato, ma i sardi non si erano persi d'animo. Così, quando il terremoto dell'Aquila ha offerto una grande occasione mediatica per nascondere i problemi organizzativi da lui stesso creati, e ne ha approfittato. Apparecchiando la notizia: Berlusconi cita lo sventato pericolo dei Black Block, e guarda caso proprio martedì la presenza di esponenti dell'antagonismo anarchico è stata segnalata a Olbia e dintorni dalle forze di polizia. La ha scritto il quotidiano L'Unione Sarda, giornale di Zuncheddu, amico del premier, grande sostenitore di Cappellacci nella corsa contro Soru. Di questi frontisti, in realtà, nessuno sa nulla. Di vero c'è che “Sa Mesa a Fora Su G8”, che raccoglie i movimenti indipendentista ed anticolonialista sardo, pensava ad un controvertice “dei Popoli oppressi”. Caspita, che minaccia.

23 aprile 2009

L'Italia va in tourneé

La squadra dl cuore del premier: letteronze ed ex attrici a Strasburgo
di Lidia Ravera
Leggo sui giornali: «In campo troniste, veline e letteronze, arrivano i volti nuovi di Silvio». Guardo la fotografia a colori che correda il testo: quattro signorine scollacciate con sorrisi standard, pose sexy, carni in mostra, spalle gambe decolté. Sono ex-attrici di «Incantesimo». Ex star del Grande Fratello, letteronze (mi sembra una parolaccia ma forse no, forse invece è una qualifica pregiata e soltanto io non lo so, non mi aggiorno mai abbastanza). Leggo, l’articolo di Francesco Bei che parla di una «tre giorni di formazione politica» in cui, insieme ad alcune «deputate collaudate», le giovanotte vengono iniziate ai misteri della politica. Saranno alcune di loro, pare, a rappresentare il nostro Paese al Parlamento europeo, proposte dal partito di maggioranza in quanto «volti giovani, facce nuove». Lo scopo sarebbe di «dare un’immagine rinnovata del Pdl in Europa». Parole di Berlusconi.

Leggo, guardo. Provo a buttarla a ridere, come s’è fatto tante volte, tutte le volte che abbiamo commentato, in pubblico,in privato, la weltanschaung del Presidente del Consiglio: uomini potenti e competitivi, con molti soldi e senza troppi principi a intralciare il meccanismo dell’accumulazione più donne di complemento, ornamentali da esibire, sexy da possedere, giovani da comprare. Donne come oggetti effimeri (quando i requisiti estetici richiesti appassiscono vengono defenestrate) di corteggiamenti narcistici: più te ne ronzano attorno più sei «arrivato». Donne come yacht, come ville miliardarie, come Ferrari Testa Rossa, status symbol di una classe dirigente che non ama i libri, non capisce l’arte, non conosce la musica, ma la F…sì, quella la onora sempre.

Lei, la «sacra sineddoche» (una parte per il tutto), che, unita alla squadra del cuore, popola l’immaginario e il tempo libero di quella nuova borghesia raccogliticcia e senza storia che governa l’Italia. Provo a convincermi che devo buttarla a ridere, che non è grave, questa ennesima «carica delle soubrettes». Mi dico: ma dai, non ti sei fatta due risate il 26 aprile del 2007, quando B. alla cerimonia per la consegna dei Telegatti disse alla signorina Yespica «con te andrei dovunque» ( si discettava, mi pare, di ritirarsi in isole deserte) e, nel giro di pochi indimenticabili minuti, sentenziò «la Carfagna...guardatela, se non fossi già sposato me la sposerei»? Hai riso no? E adesso perché non ridi più, ti è peggiorato il carattere? Che sarà mai se qualche Elena Russo, Evelina Manna o Camilla Ferranti sono state raccomandate, sostenute o imposte da B. e dai suoi... non lo sai che da alcuni millenni le donne possiedono soltanto quella forma (transitoria) di potere lì, il potere della bella ragazza, capace di frullare l’ormone testicolare maschile e promettergli soddisfazione in cambio di solidi vantaggi?

Lo so, ma il problema non è la chimica dell’accoppiamento, o il libero mercato del desiderio. Il problema è che B., invece di sposarsela, la signorina Carfagna l’ha fatta Ministro. Il problema è che , cito da intercettazione telefonica, nello spingere il prodotto Manna Evelina, ha detto: «io sto cercando di avere la maggioranza in senato e …questa Evelina Manna può essere…perché mi è stata richiesta da qualcuno con cui sto trattando». Il problema è che, noi, noi donne, vecchie o giovani, belle o brutte, colte o ignoranti, intelligenti o oche, tristi o giulive siamo stanche di essere valorizzate soltanto come merce di scambio, di esistere soltanto in quanto corpi da calendario, di vederci passare avanti, secondo un copione che pare inevitabile, quelle che ci stanno, quelle che lo fanno, quelle che hanno le misure giuste e l’ opportuna avidità, o presunzione o cinismo o disprezzo per le istituzioni.

Possibile che non ne esista una, una sola, fra le giovanotte di coscia lunga, brave a ballare e a cantare, che, alla proposta di un posto in qualche Parlamento europeo o mondiale, dica, per una volta: «No, grazie»? Alla lunga è avvilente. È avvilente non che le liste elettorali del centro destra pullulino di belle figliole, ma che, costoro, siano state, compattamente, rimorchiate nel retropalco del Gran Varietà televisivo.

Anche Debora Serracchiani è giovane e ha un bel musetto,ma si è messa in luce facendo politica, ha convinto con le sue parole, ha avuto il coraggio di attaccare la dirigenza del Pd, ha in testa un progetto, vuole che questo progetto si affermi. Si rinnova così, l’immagine di un partito. Accettando le critiche, valorizzando le intelligenze femminili, spesso più concrete e meno coinvolte negli opportunismi del potere. Non si rinnova l’immagine di un partito ingaggiando un tot di figuranti di bell’aspetto, come se al Parlamento Europeo dovesse andare in scena una commedia. E il Pdl fosse una compagnia di giro e Silvio Berlusconi l’impresario. O il capocomico.

20 aprile 2009

TERREMOTO 5


Il primo cittadino Massimo Cialente inviò un telegramma prima del terremoto
Il presidente della Provincia: "Si doveva intervenire senza aspettare la tragedia"
Il sindaco chiese aiuto prima del sisma: "Aiutateci, qui è già emergenza"
di GIUSEPPE CAPORALE

Una richiesta d'aiuto. Cinque giorni prima della tragedia. Contenuta in un telegramma urgente. Una richiesta rimasta inascoltata. Mittente, il Comune dell'Aquila. Destinatari, la presidenza del Consiglio dei ministri (dipartimento della Protezione civile), il governatore della Regione Gianni Chiodi, l'assessore regionale alla Protezione civile Daniela Stati e la Prefettura dell'Aquila. Oggetto: una istanza per la dichiarazione dello "stato d'emergenza" per la città dell'Aquila, assieme alla segnalazione dello sciame sismico in corso, e di gravi lesioni ad edifici pubblici e privati. Per colpa del terremoto.

Già, perché all'Aquila il terremoto c'era già, da mesi, con una frequenza sismica ormai quotidiana. La scossa del 30 marzo scorso (con un quarto grado di magnitudo) aveva poi scatenato il panico in città con l'evacuazione di diversi uffici pubblici, oltre a lesioni gravi per migliaia di palazzi. Con una stima dei danni pari a 15 milioni di euro. Era stata, fino a quel momento, la scossa più forte registrata all'Aquila dal 1967. E anche questo aveva spinto il sindaco Massimo Cialente a spedire un telegramma a Palazzo Chigi. Ma quella missiva (recuperata solo ora tra le macerie degli uffici comunali) cadde nel vuoto.

Del resto, proprio per la presenza dello sciame sismico e la paura diffusa nella provincia aquilana - appena il giorno prima - su richiesta del capo della protezione civile Guido Bertolaso, si era riunita all'Aquila la Commissione Nazionale Grandi Rischi. Una riunione che però non aveva - evidentemente - tranquillizzato Cialente. Che il giorno dopo decise di scrivere il telegramma.

Questo il testo: "In relazione ai gravi e perduranti episodi di eventi sismici il cui inizio risale al 16 gennaio scorso, sotto forma di quotidiano sciame sismico di complessive 200 scosse e oltre, culminato con scossa di quarto grado il 30 marzo scorso, chiedesi urgente e congruo stanziamento di fondi per prime emergenze, nonché dichiarazione stato emergenza ai fini dell'effettuazione dei necessari interventi di ripristino idoneità degli edifici pubblici e privati. Inoltre, si segnalano in particolare gravissimi danni strutturali in due edifici scolastici ospitanti cinquecento alunni".

Per il sindaco, oggi, questo telegramma ha il sapore di una drammatica beffa. "Ho fatto tutto il possibile... Adesso dobbiamo solo ricostruire ciò che abbiamo tragicamente perso. Piangere il nostro dolore e andare avanti". Più dura la posizione della presidente della Provincia dell'Aquila, Stefania Pezzopane: "La settimana tra il 30 marzo e il 5 aprile, è stata fatale per il nostro territorio. Lanciavamo continui appelli, la gente fuggiva in strada per paura delle scosse. Ci era stato detto che la nostra era una psicosi, che avremmo dovuto avere un atteggiamento diverso, di serenità. Invece..". E prosegue: "Possibile che le due scosse avvenute la notte del 5 aprile, poche ore prima della tragedia, non abbiamo fatto suonare un benché minimo campanello d'allarme? Molti di quelli che si sono salvati, quella notte hanno dormito in macchina".

19 aprile 2009

Ad memorian

19 Aprile 1943 - Rivolta del ghetto di Varsavia




17 aprile 2009

I diritti negati



Come i mediocri burocrati piccoli piccoli riescono a provocare sofferenza.

Conversazione con Maddalena Nuvoli
da "Viaggio nel silenzio" di Vania Lucia Gaito

Giovanni Nuvoli, ammalato di Sclerosi Laterale Amiotrofica, è morto, come Eluana Englaro, per fame e per sete. Perché nessuno ha voluto staccargli il respiratore sotto sedazione, e a lui non era rimasta altra scelta. A differenza di Eluana, Nuvoli era cosciente e consapevole ogni momento.

In una lunga conversazione, Maddalena Nuvoli, sua moglie, mi ha raccontato il lungo calvario di Giovanni, e l'enorme ipocrisia di politici, giornalisti, preti e benpensanti che sulla sua pelle e sul suo dolore hanno combattuto una battaglia ideologica. Questo è il resoconto di quella lunga conversazione, pubblicato da Micromega di questo bimestre.

Non cercate di immaginare cosa sono stati questi anni per me. Non ci riuscireste. Ecco, mi sentivo come travolta da uno tsunami. Le onde erano molto più forti della mia volontà. L’unico punto fermo era Giovanni, la determinazione a stargli vicino e fare ciò che lui riteneva meglio per sé. Se solo si fosse rispettata la sua volontà, espressa sempre in maniera netta, senza tentennamenti, la sua agonia sarebbe durata molto meno. E invece il dolore di mio marito, la sua sofferenza, sono state prolungate in nome di non si sa bene cosa. Con un accanimento assurdo, feroce. Fino alla fine.

Voleva che la spina del respiratore fosse staccata. Era perfettamente lucido, sapeva con chiarezza cosa gli stava accadendo intorno e quali giochi inumani si portavano avanti sulla sua pelle. E non era affatto depresso, come qualcuno ha insinuato, come qualche giornale ha riportato. Voleva solo morire con dignità. E invece è stato costretto a morire di fame e di sete, tra sofferenze indicibili. E nessuno se ne è indignato, allora. Neppure i medici, neppure i giornalisti, neppure i benpensanti che invece, per il caso Englaro, hanno inondato col loro sdegno ipocrita le prime pagine dei giornali e i servizi dei telegiornali. Quasi ci fosse una disparità tra il morire per fame e per sete di Eluana, involucro inconsapevole di una vita che l’aveva abbandonata da troppo tempo, e il morire per fame e per sete di Giovanni, costretto a scegliere la strada più estrema, più dolorosa, più atroce, per vedere finalmente rispettata la propria volontà.

Non furono mai utilizzati, per Giovanni Nuvoli, i toni di raccapriccio sbandierati in recenti occasioni. Perfino la scelta delle parole fu accurata: le parole, se usate bene, sanno nascondere bene certi orrori, certe umane e disumane vergogne. Di Giovanni si scrisse che si era lasciato morire d’inedia. Un’espressione tiepida, quella giusta per non smuovere emozioni, turbamenti, indignazione. Un’espressione che farebbe pensare a condizioni fisiche sempre più compromesse, quasi che il non mangiare e il non bere non fossero una sua precisa, estrema volontà ma una conseguenza delle sue condizioni fisiche. Giovanni Nuvoli è morto in un modo indegno, e la sua scelta è stata la scelta obbligata di un uomo che aveva già sopportato ben oltre l’umanamente sopportabile. L’unica scelta possibile di un uomo che aveva visto costantemente negata la propria volontà, la volontà di disporre della propria vita, contro l’ostinazione del solito sedicente "fronte della vita", che si arrogava il diritto di rappresentare il suo vero interesse, anche contro la sua stessa volontà.

Quando il medico anestesista Tommaso Ciacca, su richiesta di Giovanni e dopo diverse visite sue e di numerosi specialisti, venne a casa per praticare il distacco del respiratore sotto sedazione, fu fermato dalle forze dell'ordine, su decisione della Procura e del Tribunale di Sassari. L'Italia dei fautori della buona tortura applaudì, dal giornale della Conferenza Episcopale Italiana fino alla stampa locale. Soltanto una settimana dopo si sono dovuti arrendere al coraggio e alla forza di un uomo costretto, dalla sordità e dall’ottusità di chi pretendeva di sapere cosa fosse giusto o sbagliato, ad interrompere l'assunzione di cibo e di acqua.

Un corpo umano, prigioniero di una inumana sofferenza, non aspetta una legge. Quando mio marito decise di porre fine a quella sofferenza, ci ritrovammo la casa accerchiata dai carabinieri. Come Beppino Englaro fui accusata e abbandonata. Accusata di interpretare al contrario la volontà di mio marito, le sue parole scritte con lo sguardo sul cartellone in plexiglas che usavamo per comunicare, la sua determinazione a “fare presto”. Quel corpo in quel letto non era più mio marito, era la prigione di mio marito. E solo dalle finestre di quella prigione, dagli occhi, riusciva a comunicare la sua disperazione muta e terribile.

La sua malattia cominciò in sordina, nel 2000: un po’ di stanchezza, un certo fastidio nel camminare. Facevamo lunghe passeggiate, all’epoca, e quella difficoltà ci preoccupò. Giovanni consultò il nostro medico, fece delle analisi, e il medico lo ricoverò in un ospedale vicino. E lì scoprirono che aveva la Sclerosi Laterale Amiotrofica. Un nome difficile, che faceva paura. Ma io, che non la conoscevo, pensai che quel “laterale” significasse che colpiva un solo lato del corpo, e dunque non poteva essere così grave, così drammatica. Invece era lo tsunami che stava arrivando a casa nostra. La SLA è una malattia terribile, con un decorso rapidissimo, molto più rapido della Sclerosi Multipla. E’ una patologia degenerativa che colpisce un gruppo specifico di cellule del midollo spinale causando una progressiva paralisi degli arti e dei muscoli deputati alla deglutizione e alla parola. Una tragedia fino a quel momento per noi inconcepibile: entro sei mesi Giovanni perse il controllo delle gambe, aveva bisogno di essere aiutato e sostenuto nel camminare; qualche mese ancora e non solo non camminava più ma non riusciva più neppure a portare il cibo alla bocca. Perfino parlare era diventato difficile, e non riusciva a parlare bene, io riuscivo a capire quello che desiderava, ma poi, col progredire della malattia, perse anche la motilità della lingua. Per comunicare ci inventammo un cartello, una specie di primitivo precursore del My Tobii, il computer che permette con il solo movimento degli occhi di selezionare lettere o intere parole su una tastiera virtuale visualizzata sullo schermo, trasformandole in parlato attraverso un sintetizzatore vocale. Invece il cartello era in plexiglas, con lettere attaccate sopra, quelle adesive che si acquistano in cartoleria, A, B, C, fino alla Z, e poi anche i numeri. Il cartello era trasparente, si metteva fra lui e la persona che leggeva e si guardavano, attraverso il cartello, gli occhi suoi. E così si capiva quello che lui chiedeva, si diceva: stai dicendo A? E lui faceva un battito di ciglia per assentire.

Aveva 47 anni ed era sempre stato un uomo attivo, uno sportivo, pieno di energia. Prima della malattia era un ragioniere elegante che faceva il rappresentante di commercio ma anche uno sportivo, un arbitro. Alla fine pesava venti chili: un mucchietto di ossa e un po’ di pelle. Ma un cervello lucidissimo, un pensiero costantemente vigile. In fondo, qualche volta ho pensato che il calvario di Giovanni fosse in qualche modo imputabile a me, alla mia insistenza perché si ricoverasse quella prima volta che ebbe una crisi respiratoria. Era il 2003, in tre anni la malattia gli aveva mangiato i muscoli delle gambe, delle braccia, della lingua. E quella notte toccò ai polmoni.

Giovanni, sebbene fosse uno sportivo, era un fumatore. E dopo essersi ammalato continuò a fumare: non potevamo certo proibirgli la sigaretta. La SLA era ben più grave, più drammatica di un tumore. Sicché quella notte mi svegliai sentendo il suo respiro corto, lo pregai di andare in ospedale. Giovanni non voleva. Mi disse: lasciami morire qua, lasciami morire così. Ma io non volevo vederlo morire soffocato, perché è terribile morire soffocati, sono terribili quei cinque, sette minuti di strazio necessari a morire. E io non avrei potuto aiutarlo, avrei dovuto restare lì a guardare, impotente, senza poter fare nulla, perché io non sono in grado di aiutare una persona morente in quello stato, non ho le capacità necessarie, e invece avrebbe dovuto essere aiutato, sedato in qualche maniera. Dunque lottai, lo convinsi ad andare in ospedale e chiamai il 118. Ad Alghero, ad Olbia, a Sassari non c’era possibilità di ricovero. Lo portarono ad Oristano, e lì arrivò in coma. Lo ricoverarono in rianimazione e ci rimase otto mesi, sebbene dallo stato di coma fosse uscito dopo le prime cure. Era pienamente cosciente, pienamente lucido, e convocò subito i medici, i primari, per esprimere a loro la sua ferma volontà di non voler essere intubato, di non voler essere attaccato alle macchine. Poi una mattina arrivai e lo trovai tracheotomizzato. Gli avevano detto “Starai meglio, starai meglio”, e con questo “starai meglio” si era ritrovato con un tubo in gola, un tubo che non voleva. Il primo di tanti.

E io mi sentivo in colpa, per tanto tempo mi sono sentita in colpa per averlo convinto al ricovero. Perché da quel ricovero, da quel momento preciso, da quel primo tubo inserito in gola, Giovanni Nuvoli non è stato più Giovanni Nuvoli ma una malattia. Era sempre quello che vuole staccare le macchine, quello che ha la SLA, sempre quello, mai Giovanni. Si avvicinavano a lui e chiedevano: “Beh, come va, come va?” Non prendevano neanche il cartello, perché non lo sapevano neanche leggere, e dicevano: “Sì, sì, va bene, va bene”. Poi arrivavo io e leggevo il cartello: “Oggi ho mal di stomaco” e nessuno aveva preso il cartello per permettergli di farsi capire. Dunque lui era un numero, un letto occupato, perché un letto in rianimazione costa 1.500 euro al giorno, a casa ne costava non più di 400, e forse faceva comodo tenerlo lì. Sulla sua pelle si sono giocate questioni ideologiche, questioni religiose, questioni etiche, dimenticandosi che si trattava di un uomo, un uomo vivo, con i suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi dolori.

Gli infermieri entravano nella sua stanza al mattino, per esempio, e non lo salutavano. E Giovanni ci restava male. Così un giorno me lo raccontò ed io chiamai uno degli infermieri, gli chiesi perché non avessero neppure la cortesia di salutare mio marito al mattino, quando entravano nella sua stanza. E la sua risposta fu agghiacciante: “E lei crede che stiamo lì a salutare? Ma noi siamo abituati alle persone in coma!” Così come fu agghiacciante la risposta di un primario quando chiesi che, dopo il ritorno a casa di mio marito, gli infermieri venissero a casa per tre ore al mattino e tre ora la sera: “Signora, noi le diamo un’ora dei nostri infermieri specializzati, per il resto se lo smerda lei.”

E questi erano gli uomini che dicevano di volergli bene, quelli che dicevano di essere “per la vita”. Questi erano i benpensanti legati al Vaticano, quelli che dicevano che la vita è un miracolo e dev’essere vissuta, quelli che pensano che costringendo un uomo a restare attaccato ad una macchina si guadagnano il paradiso. E per suffragare il loro pensiero gettano discredito perfino sulla moglie angosciata di un uomo che non riesce più ad esprimere la propria volontà se non attraverso un cartello di plexiglas letto da quella donna. E per gettare discredito dicono cose indegne, infamanti. Dissero, ad esempio, che io leggevo al contrario: mio marito intendeva dire una cosa e io invece dicevo l’esatto opposto. Eppure nessuno di questi signori si prese mai il disturbo di imparare a leggere il cartello, per poter comunicare direttamente con mio marito senza il mio aiuto. Erano prassi quotidiana le insinuazioni, i processi alle intenzioni ed il comportamento paternalistico di una classe medica sempre più attenta a se stessa che ai diritti dei propri assistiti. Un oncologo, dopo aver confermato la volontà espressa da Giovanni di volere che si staccasse la spina al ventilatore polmonare, si e' avventurato in una improbabile e arrogante interpretazione delle sue vere intenzioni. Alcuni hanno sostenuto che mio marito non poteva volere che gli staccassero il respiratore, perché aveva accettato medicinali per un doloroso trombo alla gamba. Come se voler morire senza soffrire equivalga a voler vivere a tutti i costi.

E quando finivano i medici cominciavano i preti. Il cappellano fece intendere ai giornalisti di parlare con Giovanni, quando andava a dargli la comunione. Diceva: Nuvoli è amante della vita, ama la vita perché è un dono di Dio, desidera vivere. E invece non era vero nulla. Giovanni mi disse: mi dà la comunione, ma non mi chiede nulla ed io non gli dico nulla, perché nessuno viene a leggere il cartello. E poi quella farsa su L’Avvenire, quella lettera aperta stampata sul giornale senza neppure prendersi il disturbo di inviarla anche a lui, in ospedale. Un articolo vergognoso, parole altezzose e accusatorie da parte di chi rappresenta la gerarchia vaticana, la stessa che, sorda ai più elementari dettami della solidarietà e della pietà umana, chiuse le porte davanti al feretro di Piergiorgio Welby. E fra le righe mille insinuazioni, prima fra tutte quella sulle decisioni prese da Giovanni, quasi a voler intendere che mio marito fosse stato strumentalizzato.

Solo dopo la visita di Marco Cappato e di Tommaso Ciacca, un medico anestesista che si era reso disponibile ad esaudire la volontà di mio marito, preti e vescovi si avvicendarono al suo capezzale, forse temendo di essere scippati del predominio ecclesiastico sulla vita e sulla morte. Finché un giorno, al sacerdote che ripeteva la solita cantilena sulla vita che deve essere vissuta perché è un dono di Dio, mio marito ha risposto: io sono nato da solo e morirò da solo, e dunque se davanti a Dio andrò da solo, la mia vita me la devo gestire io; e se la religione e la legge italiana affermano che non bisogna manipolare l’embrione, perché manipolate me, che non sono più un embrione e sono un uomo?

Forse avevano paura di trovarsi faccia a faccia con la verità, con la verità scomoda di un uomo che chiedeva di staccare le macchine e di morire con la dignità che gli avevano portato via. O forse soltanto per affermare un principio teorico, astratto. E per affermare quel principio teorico, astratto, diventava tutto lecito, anche la manipolazione della volontà di Giovanni, anche quel seminare dubbi e discredito sulla mia interpretazione di quella volontà.

Per superare quel discredito, chiedemmo il My Tobii, il sintetizzatore vocale. Lo chiedemmo per tre anni, ma costava troppo ed era “scomodo”: Giovanni avrebbe potuto esprimere direttamente il suo pensiero, e in molti non erano assolutamente disposti a starlo ad ascoltare. Poi, quando arrivarono i giornali e le televisioni, quando i giornalisti cominciarono a sollevare clamore sulla vicenda, la Direzione Sanitaria si precipitò a comprare il My Tobii. Costò 22.000 euro, e finalmente mio marito riuscì a dire quanto aveva da dire. Ma vennero sollevate altre questioni, altri dubbi. Dapprima sul sintetizzatore stesso: sono venuti il PM, il giudice, il cancelliere e uno specialista dell’Università di Sassari per dichiarare che il My Tobii era una macchina autentica e che non c’erano alterazioni nel suo funzionamento. Poi sull’ufficialità formale di quanto Giovanni diceva attraverso il sintetizzatore. Chiedemmo alla Polizia Municipale di autenticare la sua “firma”, ma non si sono resi disponibili. Allora abbiamo chiamato i notai, e i notai hanno risposto che l’Ordine dei Notai non poteva autenticare le dichiarazioni di Giovanni Nuvoli perché erano dichiarazioni di morte. Sicché siamo dovuti ricorrere al tribunale e il tribunale mi ha nominata suo tutore.

Una guerra continua, e non solo, non prevalentemente contro la malattia. Perché la SLA è una malattia senza ritorno, dalla SLA non si guarisce: si può solo tentare di ridurne, in maniera infinitesimale, l’implacabile avanzata. Distrugge il corpo eppure lascia il cuore sanissimo, il cervello sanissimo, e poi ad un certo punto ruba anche la vista. Il nervo ottico continua a funzionare, gli occhi continuano ad essere sani, ma le palpebre non si aprono più. E lui, che ormai comunicava solo col battito delle palpebre, aveva il terrore di quel momento, del momento in cui gli sarebbero mancati anche gli occhi e, dalla clausura del proprio corpo, non avrebbe più potuto esprimere se stesso, la sua volontà, i suoi pensieri.

E alla guerra che già combatteva ogni giorno, ogni minuto, si sovrapponevano altre guerre. Quella contro la sua permanenza nel reparto di rianimazione, per esempio. Ce lo tennero otto mesi, con la possibilità di ricevere visite solamente per due ore al giorno, e al massimo due persone. Eppure Giovanni era sveglio, cosciente. E avrebbe avuto bisogno di sentirsi intorno le persone che gli volevano bene, la famiglia, gli amici. Invece era tenuto in rianimazione, tutto il giorno da solo tranne per quelle due ore in cui le visite erano permesse. Così, per tornare a casa, perché gli consentissero di tornare a casa, disse ai giornalisti di aver cambiato idea, di non volere più essere staccato dalle macchine. Fu una sorpresa anche per me, e quando restammo soli gli chiesi cosa gli avesse fatto cambiare idea. “Guarda che io il tempo per pensare, qui dentro, ce l’ho. Se continuo a dire che io non voglio la macchina, non mi fanno andare a casa. Se invece dico che la voglio, mi fanno andare a casa. E a casa mi staccheranno questa maledetta macchina.”

La verità è che la volontà di Giovanni Nuvoli non è stata mai rispettata, si è fatto di tutto per non rispettarla. E quando finalmente tornò a casa, dove era stata allestita una camera adatta alle sue necessità, con una piccola rianimazione, gli ostacoli si moltiplicarono. Si mobilitò perfino il senatore Piergiorgio Massidda, chiedendo che Giovanni fosse sottoposto ad un esame psichiatrico, per verificare che la sua volontà non fosse condizionata, che le sue facoltà mentali non fossero obnubilate. Così venne uno psichiatra, e quasi scusandosi spiegò che sapeva benissimo che la malattia non comprometteva la sua mente, i suoi pensieri, le sue capacità psichiche, e tuttavia era stata chiesta questa perizia, dunque se Giovanni fosse stato d’accordo, l’avrebbe fatta. Mio marito non aveva nulla da obiettare, anzi, sperava che fosse un modo per porre fine a tutti i dubbi che molti continuavano a sollevare. Così lo psichiatra fece questa perizia e alla fine verbalizzò quel che tutti sapevano benissimo: Giovanni era lucido ed era perfettamente in grado di intendere e di volere, anche quando esprimeva la volontà di staccare il respiratore artificiale.
Ma faceva più comodo a tutti far finta di non capire. Perfino Mario Melazzini, il presidente dell’associazione nazionale dei malati di SLA, fece finta di non capire. Salvo che, quando poi parla di se stesso, Melazzini rivendica il diritto di decidere per la propria vita, il diritto di rifiutare la tracheotomia. L’ha perfino lasciato già scritto. Non vuole la macchina, non vuole il tubo conficcato nella gola.

Invece su Giovanni i tubi si moltiplicavano: aveva la PEG, il sondino che entra direttamente nello stomaco, aveva la tracheotomia, il catetere, il port-a-cath, un dispositivo biotecnologico che permette di avere un accesso venoso centrale sempre disponibile… E intubato così, un uomo può vivere all’infinito, vive all’infinito, controllatissimo, ogni funzione monitorata… e le medicine pronte per ogni evenienza. Si vive all’infinito, sì… ma in quella maniera è vita? Perché questo è il dramma: la SLA permette di sopravvivere anche vent’anni, trent’anni, quarant’anni. E si finisce col morire per un’infezione. Un’infezione causata magari proprio da uno dei tubi inseriti ovunque.

E Giovanni non voleva morire in questo modo. Aveva consapevolezza del proprio corpo, di cos’era diventato. E ogni tanto chiedeva una cosa terribile: pretendeva che gli fosse portato lo specchio. Lo specchio grande, quello del bagno, perché voleva guardarsi interamente. E quando chiedeva lo specchio, di colpo piombava un silenzio cupo, peso, e in quel silenzio cupo, peso, andavamo a prenderlo, con la schiena bassa. Non voleva che fossi io a descrivergli il suo corpo, voleva vederlo. E mentre si guardava, in quel gran silenzio, io guardavo il suo viso. E se gli cadeva una lacrima, mi faceva capire: non toccarla questa lacrima, perchè questo sono io…Ecco, io ho visto tante cose terribili, ho vissuto tante cose terribili, ma una delle peggiori era sentir chiedere lo specchio, guardarlo mentre si guardava e capiva perché tanti suoi amici non venivano più a trovarlo, perché tanti dicevano “Preferisco ricordarlo com’era”.

Ma, per fortuna, c’era anche chi riusciva a guardare l’uomo oltre quel mucchietto di ossa, oltre quella pelle trasparente. Venivano e magari qualcuno usciva fuori a piangere e diceva: Maddalena, non ci riesco, non riesco ad entrare… Perché qualcuno aveva anche paura e io gli dicevo: non preoccuparti, ci dà coraggio lui, è lui che dà coraggio a noi. E alla fine, quando andavano via, si sentivano sollevati, contenti, e tornavano. Alcuni tornavano anche due volte alla settimana. Ed erano quelli che rispettavano il pensiero di Giovanni, rispettavano la sua volontà. Capivano che la fine sarebbe stata una liberazione, e lo capivano perché erano veramente amici, e quella sofferenza la portavano con lui.

Così come quella sofferenza la capivano i medici dell’equipe che Giovanni aveva chiamato intorno a sé. Medici che si erano dichiarati disponibili ad aiutarlo nelle sue determinazioni attraverso il trattamento di fine vita. Otto medici, coordinati dal dottor Tommaso Ciacca, che aveva seguito mio marito fin da quando era ancora in ospedale. Anche gli altri medici erano venuti in ospedale, spesso in incognito, per evitare spiacevoli discussioni con il personale: sicché si presentavano come colleghi di lavoro, arbitri, allenatori.

I medici ebbero numerosi colloqui con Giovanni, sembrava ormai che si fosse davvero giunti alla fine, a quella possibilità di una fine dignitosa e senza sofferenze che mio marito desiderava.

Il 7 luglio, il dottor Ciacca si presentò dai carabinieri di Alghero, per consegnare al procuratore capo di Sassari un'informativa su quello che aveva intenzione di fare: staccare il ventilatore martedì 10 luglio alle 23. I carabinieri lo trattennero e il capitano Francesco Novi lo interrogò fino alle 2.30 del mattino. Ma a mezzogiorno di quel 10 luglio, il medico fu richiamato dai carabinieri: la procura aveva intenzione di fare tutto quanto in suo potere per impedire al dottor Ciacca di compiere la volontà di Giovanni. Così ci siamo ritrovati la casa circondata dai carabinieri. Non sapevo che fossero carabinieri, perché erano tutti in borghese. Era un giorno di sole e faceva caldo, sicché sono uscita a chiedere se avevano bisogno di qualcosa, se desideravano almeno un po’ d’acqua. Invece aspettavano che arrivasse Tommaso per bloccarlo. E lo hanno fermato proprio lì, all’ingresso del giardino. Non volevano neppure farlo entrare per comunicare a mio marito che la procedura non sarebbe neppure potuta iniziare. Infine lo hanno fatto entrare, ma hanno preteso che stesse lontano dalla macchina, dall’altra parte della stanza: neanche temessero che staccasse la spina proprio quel giorno, davanti ai loro occhi. Il capitano Novi entrò nella stanza con me e con Tommaso, e avvisò mio marito che non si sarebbe mai allontanato. E a quel punto Giovanni decise di non voler più mangiare né bere.

Ci fu qualche telefonata, qualcuno che si offrì ancora di aiutarlo. Aiutarlo a compiere in maniera meno orrenda il suo percorso di fine vita, in maniera meno terribile che non morendo per fame e per sete. Ma non venne nessuno, e il lunedì seguente Giovanni decise di non alimentarsi più. In mattinata venne il medico, e scrisse nella cartella clinica che da quel giorno non si doveva più dargli cibo né acqua. Così, come fosse una cosa normale, come se non fosse una atrocità inumana che si consumava sotto gli occhi dei medici benpensanti, dei giornalisti, della gente per cui Giovanni Nuvoli non era più un uomo ma un campo di battaglia. E nessuno di loro si indignò, nessuno di loro si scandalizzò per quella decisione. Nessuno parlò di alimentazione forzata, di sacralità della vita, in quella occasione. Finsero di non vedere e non capire. Finsero che quella non fosse una scelta lucida e consapevole di un uomo che non avevano saputo ascoltare, capire. Finsero di credere che mio marito non si alimentasse più a causa di un aggravarsi della malattia, e che questo suo digiuno non fosse un atto, quello più estremo, per riappropriarsi del proprio diritto di scegliere. Ecco, questo è, in fondo, quello che li spaventa di più: che un uomo possa scegliere. E pur di non ammettere che un uomo può scegliere, ha il diritto di scegliere, preferiscono girarsi dall’altra parte, fingere di non capire, di non vedere. E poi era tanto più comodo lasciare che Giovanni morisse di fame e di sete, tanto più comodo: nessuno di loro avrebbe dovuto prendere una decisione, nessuno di loro avrebbe corso il rischio di subire un’indagine, nessuno di loro avrebbe messo a repentaglio il proprio lavoro o la propria facciata di “paladino della vita”. E lasciarono che un uomo che aveva già subito tanto, un uomo che pesava venti chili e che la malattia aveva sfiancato, logorato, consumato, sopportasse altri sette giorni di calvario. Perché nulla fu facile, neppure quello. Nulla fu breve e senza dolore, neppure quello.

Perché il dolore arrivò subito, fin dal primo giorno. Ma la sua volontà rimase sempre ferma, granitica: chiese perfino che la sedazione gli venisse somministrata senza l’aiuto della fisiologica, perché non si prolungasse neppure di un’ora, neppure di pochi minuti, la sua sofferenza. Eppure, anche per sedarlo, si aspettò il terzo giorno, quando i dolori erano ormai atroci, il colorito era terribile, la pressione aveva sbalzi continui e Giovanni aveva la tachicardia, la febbre… Allora finalmente hanno deciso di alleviargli almeno gli ultimi tormenti. E abbiamo dovuto salutarci.

Ed è stato terribile salutarci, perché sapevo che non stavo salutando un uomo che parte per una vacanza, ma un uomo che parte per un viaggio da cui non farà ritorno, e non ci saremmo più rivisti. Ecco, quando qualcuno mi dice “Mi immedesimo” rispondo: e in cosa, in cosa ti immedesimi? Non ci si può immedesimare, perché in quel corpo sfinito, in quelle ossa coperte da un po’ di pelle, c’era Giovanni. E Giovanni vedeva, sentiva, era lucidissimo, sentiva dolore, sentiva tutto, tutto ciò che girava intorno, tutti i sentimenti c’erano, tutti i sentimenti di un uomo normale, non di un uomo malato. Io non ho mai pensato: quest’uomo è malato. E non ero preparata a lasciarlo andare. No, nessuno credo sia preparato a salutare il marito che non rivedrà più, non credo che ci sia una persona pronta. Io ho fatto una gran fatica. Non riuscivo ad entrare nella stanza. Il medico mi diceva di andare, mi diceva che aspettando avremmo solo prolungato le sue sofferenze, ma io non riuscivo. Mi ci volle un’ora a ritrovare la mia finta serenità, prima di entrare, e così lo salutai come si saluta un amico che parte per un lungo viaggio. Sentivo le orecchie ronzarmi. Era un saluto infinito, e in questa infinità avrei voluto gridare tante cose. E invece ho continuato a dire: non andare, ti prego, torna indietro, io ci sono, ti aiuterò. Però, via via che parlavo, facevo meno fatica, Giovanni mi infondeva il suo coraggio. Mi disse: “Sono veramente sereno, voglio andare. Sii serena anche tu, voglio rivederti serena e sorridente come quando ci siamo conosciuti”. Ed io ebbi la piena consapevolezza di perdere un grande uomo, un uomo coraggioso. Un uomo di cui ero innamorata molto più profondamente che all’inizio, perché quella sofferenza che avevamo portato insieme aveva dato ancora più profondità, ancora più spessore ai sentimenti.

Mi hanno arricchito di un bagaglio di grande forza, quei giorni, quei mesi, quegli anni. Mi sento serena, l’ho accompagnato e ho lottato con lui. Ma il coraggio era il suo, non il mio. E a guardare indietro, a quei giorni, a quegli anni, mi chiedo davvero come ho fatto a sopportare così a lungo e così atrocemente. Eppure, tutte le mattine riuscivo a sorridere, riuscivo ad andare avanti e magari tante notti me le passavo seduta a scrivere o a leggere oppure a pensare e a guardare il soffitto. Ma il coraggio era quello di Giovanni, era lui a trasmetterlo a me. Un coraggio che non ha mai vacillato, neppure un istante.

Neppure quando lo sedarono e, sempre per non rischiare, non gli diedero una dose sufficiente a farlo dormire fino alla fine. Ogni tanto Giovanni si risvegliava fra dolori atroci, perché lo stomaco, divorato dagli stessi succhi gastrici, aveva emorragie terribili. Allora gli davano una nuova dose di sedazione, ma intanto quei minuti di ritorno alla lucidità comportavano un calvario atroce, sofferenze indicibili. Fino a che i medici hanno chiamato la rianimazione di Sassari e hanno chiesto di poter aumentare la dose perché dormisse fino alla fine. Le sue ultime parole sono state: fate presto, fate presto, vado, vado.

E infine il cuore cessò di battere. Erano le dieci e mezzo della sera del 23 luglio. Il medico accertò la morte e, uscendo dalla stanza, disse: il cuore ha cessato di battere. E mi abbracciò. Ma come si può dire che un uomo è morto di arresto cardiaco, senza dirne la ragione, senza dire la verità che si nasconde dietro certe espressioni pietose? Giovanni è morto di fame e di sete, perché gli è sempre stata negata la possibilità di morire in maniera più dignitosa. Ed è morto collegato a quella macchina, a quel respiratore che aveva sempre rifiutato, che aveva sempre voluto venisse staccato. Eppure non potemmo staccarlo neppure dopo che il medico ebbe accertato il decesso. Dovemmo avvisare il PM, perché fosse il PM a verbalizzare che il respiratore non era mai stato staccato. Così chiamammo e il PM venne dopo tre ore. E in quelle tre ore la macchina continuò a ventilare, continuò a gonfiare e sgonfiare un corpo martoriato che neppure ora riusciva a trovar pace.

Eppure di questa vergogna nessuno scrisse, nessuno volle scrivere. Usarono parole pietose, toni smorzati, a nascondere il dramma che Giovanni aveva vissuto, il calice amaro che aveva dovuto bere e nel quale, fino alla fine, avevano continuato a versare veleno. E invece pochi mesi dopo sollevarono un gran clamore sul caso Englaro. Perché c’è questo, da dire: i nostri politici si sono accorti di Eluana in un momento politico particolare nella nostra Italia e hanno strumentalizzato l’intera vicenda senza alcuna vergogna, fino al parossismo. Fino a rendere dichiarazioni pubbliche disgustose, come quella del nostro Premier, che ha affermato che Eluana avrebbe potuto procreare. Io non so un uomo come possa permettersi di arrivare a questo punto. Come possa giungere ad affermazioni così indecenti, così insopportabili.

Suo padre, Beppino, ha avuto un gran coraggio, fino all’ultimo. Ed è stato giusto anche non permettere ai giornalisti di vedere in quale stato si fosse ridotta sua figlia, non dare in pasto all’opinione pubblica l’immagine di oggi di Eluana. Forse avrebbe avuto maggiori possibilità di essere compreso. Ma è stato giusto che fosse così, che proteggesse l’intimità di sua figlia fino all’ultimo.

Invece mio marito ha voluto mostrarsi, far capire alle persone come può ridursi un uomo, un uomo di un metro e ottantacinque, uno sportivo, consumato dalla malattia fino a pesare venti chili. E volle perfino che la foto sul necrologio lo ritraesse così, com’era diventato, e non com’era stato.

Il giorno dei funerali di mio marito, in chiesa, davanti alla bara chiusa, mia figlia Silvana, che aveva portato con noi quella sofferenza, raccontò del coraggio di certi uomini costretti, loro malgrado, a diventare eroi. Sono uomini normali che forse non avrebbero mai voluto diventare eroi. Sono quegli uomini ai quali non è dato di vedere esauditi i propri desideri, spesso semplici e legittimi. E spesso la colpa, mascherata da valori, è di altri uomini, uomini decisamente più piccoli.

Per questo oggi sono serena, per questo ero serena perfino quella notte, mentre aspettavamo il PM per riuscire finalmente a staccare quella macchina che continuava ostinata a pompare aria nel suo corpo, con la stessa ostinazione di coloro che credevano che solo quel corpo restasse di una vita, di un uomo.

16 aprile 2009

Censura da regime


La RAI CACCIA VAURO
Dopo due riunioni, il direttore generale Mario Masi, con il placet del presidente di area Pd Paolo Garimberti, ha deciso la «sanzione»; a casa (almeno per ora) il vignettista Vauro per violazione contrattuale: la battuta sulle cubature dei cimiteri è incompatibile, oltreché col buon gusto, col contratto di servizio e il Codice etico Rai.

ANNOZERO: DE MAGISTRIS (IDV), SU VAURO DERIVA NEO-AUTORITARIA
''La deriva neo-autoritaria nel nostro Paese e' sempre piu'' evidente. E' in atto da tempo una campagna di regime tesa a neutralizzare il dissenso pacifico al pensiero unico''. E' quanto afferma Luigi De Magistris, candidato Idv alle prossime elezioni europee.''

Chi osa pensarla diversamente dal manovratore di turno, portando ossequio alla Costituzione Repubblicana, viene punito con manifestazioni di indubbia violenza morale - prosegue -. Accade nei confronti di magistrati come di giornalisti, nei confronti del mondo del lavoro e finanche della satira. Sta a chi ha a cuore la democrazia e lo Stato di diritto praticare una pacifica resistenza costituzionale.

A Vauro un abbraccio carico d'affetto e solidarieta' piena''.

15 aprile 2009

TERREMOTO 4


...Perché il silenzio è dei colpevoli...
Una lettera aperta di una studentessa de L'Aquila

“Queste sono delle vittime innocenti. Vittime di farabutti che hanno speculato sull’edilizia.

”Ha detto così il padre di uno dei ragazzi vittime di questo terremoto.

Io ero lì, a L’Aquila. Dormivo tranquilla, un po’ perché in fondo con le piccole scosse eravamo abituati a convivere, un po’ perché casa mia era costruita secondo le norme antisismiche, casa mia era un palazzo nuovo.

Quella notte tanti altri ragazzi come me sono andati a dormire con la mia stessa tranquillità. La differenza tra me e loro è che io sono ancora viva. Loro no.

Io sono viva perché casa mia era davvero antisismica. E loro sono morti perché…. già, perché sono morti?

Perché edifici teoricamente nuovi si sono sbriciolati più velocemente di costruzioni risalenti al 1500 (o addirittura al 1200)? Io non credo, come qualcuno ha detto, che porsi domande di questo genere rappresenti una mancanza di rispetto nei confronti delle vittime.

Ricordo che, di prima mattina, una mia vicina di casa che possedeva un’auto si era recata alla questura lì vicino. Volevamo informarci se potevamo dare una mano ai soccorsi, sapevamo già che c’erano dei morti e ci sentivamo inutili a stare fuori dalle case, in pigiama, in balìa della paura. Questa ragazza, una volta entrata, si è trovata davanti un ufficiale che stava lì seduto a girarsi i pollici; questo signore le ha detto che per ora non si sapeva nulla, che quella sera, in un campo sportivo, si sarebbe tenuta una riunione aperta alla cittadinanza; lì si sarebbero coordinate le azioni di soccorso, chi voleva dare una mano avrebbe dato il nominativo e poi si sarebbe deciso chi doveva fare cosa…ma come?? Mesi di sciame sismico, e nessuno aveva pensato a stabilire un piano nel caso fosse successa una cosa simile?? Bisognava attendere la sera dopo il disastro???

Una ragazza che ha perso il fratello nel crollo della casa dello studente ieri ha detto “I nostri genitori ci mandavano qui a studiare…non a morire.” Non credo sia una mancanza di rispetto sottolineare che, come in tutte le catastrofi naturali, come nelle guerre, anche stavolta le prime vittime sono i poveri. I ragazzi che vivevano nella casa dello studente erano lì perché avevano vinto una borsa di studio. Erano lì perché erano delle persone meritevoli, non dei figli di papà viziati che stanno all’università per divertirsi. Le loro famiglie non erano in grado di mantenerli, perciò lo Stato avrebbe dovuto garantirgli il diritto allo studio.

Gli ha garantito il dovere alla morte.

Quel palazzo era del 1980. Ed era stato ristrutturato solo due anni fa. Eppure, l’intera parte posteriore è crollata. Ma non è una sorpresa per alcuni dei ragazzi, che giorni prima del crollo avevano segnalato la presenza di crepe nell’edificio, che durante le scosse dei giorni precedenti avevano più volte contattato i vigili del fuoco, ma non avevano ottenuto risposte, che lamentavano la totale assenza di scale d’emergenza.

Niente scale d’emergenza, in un edificio concepito per ospitare 150 persone… e se la tragedia non fosse successa in un periodo così vicino alle vacanze di pasqua? e se invece degli 80 studenti che vi si trovavano, l’edificio fosse stato pieno?

Uno dei soccorritori che scavava tra le macerie della casa dello studente, intervistato, ha esclamato con amarezza: “Ma quale cemento armato, questo, due colpi di pala e si sbriciola tutto!...”

Le parti più nuove dell’ospedale San Salvatore (le prime a crollare) sono state costruite da un’impresa nota come IMPREGILO, la stessa impresa responsabile dello scandalo della spazzatura a Napoli (che ci ha riempito d’orgoglio con il resto del mondo) e la stessa che, a quanto sembra, avrà affidati i lavori per il ponte sullo Stretto di Messina.

La più grande ditta produttrice di cemento armato in Italia è da mesi sotto sequestro, accusata di rapporti con la mafia e di truffa, ossia di rubare, impiegando pochissimo cemento e troppa ghiaia e altri materiali inerti negli edifici che costruiva.

Nelle intercettazioni si sentono i costruttori fare dialoghi del tipo:“Quanta sabbia vogliamo mettere oggi? E quanto pietrisco?” “Ma non potremmo fare le cose a norma almeno questo mese?” “No no, viene a costare troppo…”

E’ UNA MANCANZA DI RISPETTO DIRE CHE QUESTI SONO DEGLI ASSASSINI, CHE DEVONO MARCIRE IN GALERA, CHE BISOGNA FARE IN MODO CHE NESSUNO, MAI PIU’, PER IL RESTO DEI LORO GIORNI, GLI CONSENTA DI SVOLGERE IL LORO LAVORO?

Non credo neanche che abbia mancato di rispetto il giornalista che, durante la conferenza stampa, ha chiesto al nostro presidente del consiglio perché i soldi del “Piano Casa” non erano stati usati per rinforzare gli edifici già esistenti, invece di costruirne di nuovi.

“Non abbiamo la bacchetta magica… mica possiamo fare tutto antisismico….” È stata la risposta.

È vero, non hanno la bacchetta magica. Hanno sei miliardi di euro per costruire il ponte sullo Stretto di Messina. Un progetto che gli architetti più famosi del mondo hanno definito irrealizzabile. Un’opera che non starà mai in piedi. Ma si sa, che gli architetti famosi sono tutti ex agenti del KGB.

E poi, già, il Piano Casa… ma in quanti sanno che il Piano Casa elimina il ruolo dei comuni nel controllo della stabilità degli edifici, ruolo delegato esclusivamente al proprietario e al progettista? E se il proprietario e il progettista decidono di andare al risparmio, chi gli impedirà di fare i loro porci comodi?

Ma si sa, l’Italia è un Paese dove si indaga, fino a che non si tocca uno importante… allora si cambia la legge.

Come dice il prof. di urbanistica Antonello Boatti, le norme antisimiche possono essere applicate anche per recuperare edifici antichi…le università se ne interessano da tempo. Ma naturalmente, queste tecnologie richiedono denaro, e in Italia i fondi alle università vengono tagliati.

A piangere ora siamo bravi tutti. Chi non piangerebbe alla vista di una madre che si dispera sulla bara del figlio? Chi non proverebbe rabbia? Purtroppo, l’Italia storicamente è un paese che batte i record per le indignazioni più brevi del pianeta. Pian piano, la gente ritornerà alle proprie vite, a lamentarsi del tempo e dell’inflazione…ma nelle famiglie che hanno perso un figlio, un fratello, un genitore, quel posto vuoto a tavola ci sarà per sempre, ogni giorno; quei sorrisi giovani e pieni di vita, gli abbracci e le carezze di quei ragazzi, saranno per sempre una mancanza lacerante nella vita di chi li ha amati.

E quel qualcuno (perché qualcuno c’è di sicuro) che ha la responsabilità di tutto questo, dovrà pagare per le vite che ha spezzato. E noi, studenti sopravvissuti, non dovremo avere pace finché questo non avverrà. Il nostro fiato sul collo sarà la loro tortura. Come dice Marco Travaglio, tante volte è stato detto “Mai più”, fino al terremoto successivo. Stavolta, nessuno deve dimenticare.

Noemi Alagia - Studentessa del secondo anno in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica, L’Aquila

11 aprile 2009

TERREMOTO 3


Il Comune indaga sui crolli. Il sindaco: «Voglio la verità»

di Claudia Fusani
Un’indagine amministrativa interna, tra i dipendenti del Comune, da avviare il prima possibile per capire chi e come ha truccato le carte all’ospedale S. Salvatore. O alla città giudiziaria, tribunale e procura. E in ogni altro edificio pubblico e scuola dove i tecnici comunali incaricati hanno di volta in volta certificato la congruità dei lavori e dei materiali impiegati. La macchina del comune dell’Aquila rimasta orfana di sede e documentazione, l’archivio di Stato e notarile è perso così come buona parte di tutta la documentazione, sta piano piano ricominciando a funzionare in strutture provvisorie, soprattutto asili, strutture basse, sicure, dove le scosse si fanno sentire ma non fanno danni.


La verità sui crolli
Ma la verità sui crolli è una priorità anche per il sindaco Massimo Cialente e i suoi collaboratori ora tutti suddivisi in “funzioni” essenziali, dai materiali alla logistica, dal censimenti dei danni alla verifica degli stabili, come prevede il Piano anticrisi. Così, lascia trapelare il direttore generale del comune Massimiliano Cordeschi, una delle prime iniziative sarà proprio quella di avviare un’indagine aministrativa sul «rilascio delle congruità dei vari stati di avanzamento dei lavori e dei materiali usati». La città giudiziaria, inagibile e in parte crollata all’interno, risale agli anni settanta e comunque negli anni dovrebbe aver avuto varie verifiche statiche. L’ospedale, storia kafkiana di assurdi e bugie, è iniziato nel ’72, è terminato nel 1996 ed è finito sotto inchiesta più volte per i giri di soldi e i materiali considerati scadenti. «Abbiamo un contenzioso antico con la ditta», spiega l’assessore ai Lavori Pubblici Ermanno Lisi «che non abbiamo mai voluto chiudere. Così adesso potremmo rivalerci noi nei loro confronti per i danni subiti». Per la vergogna, invece, non c’è prezzo.

L’ospedale è stato evacuato, definito non agibile, sono venuti giù anche i controsoffitti. Intanto va avanti l’inchiesta della magistratura sui crolli dei palazzi, come ha spiegato ieri all’Unita il procuratore Rossini, ma anche su eventuali sottovalutazioni del rischio sismico. Rossini ha dato incarico ai vigili del fuoco di repertare pezzi di cemento di ogni palazzo crollato e di quelli più gravemente lesionati costruiti di recente. Ogni singolo reperto sarà poi periziato e sottoposto ad indagine granulometrica. Non è tanto un problema di sabbia di mare («mi sembra strano – dice Livi – per i costruttori da queste parti costa molto meno il materiale inerte che trovano in loco, ad esempio abbondiamo di ghiaia») quanto semmai la composizione del calcestruzzo, la percentuale di acqua, la costituzione granulometrica dell’inerte e il cemento che poi sono le tre componenti del calcestruzzo. E può essere un problema di tipologia del ferro (tondino), il liscio garantisce meno dello zigrinato, e di distanze tra una sbarra e l’altra nel blocco di cemento.

Il sindaco Massimo Cialente crede molto nell’inchiesta: «Voglio sapere la verità», dice. «E’ un fatto che interi pezzi di strada, costruti nello stesso periodo e dagli stessi costruttori sono venute giù. Mentre altre, accanto, sono rimaste in piedi». I vigili del fuoco sono al lavoro. Ma anche i cittadini hanno fatto parte del lavoro. Un padre ha raccolto un pezzo di cemento della Casa dello Studente crollata in via XX Settembre. Dove è morto suo figlio.

10 aprile 2009

Case pastafrolla



I sopralluoghi dei tecnici: "Fondamenta sono state corrose dal sale"L'Ance: "Cacceremo i colpevoli". A rischio gran parte della edilizia del sud
Il fragile cemento delle case d'Abruzzo: "Lo hanno riempito di sabbia del mare"
di CARLO BONINI
Ci hanno raccontato della furia del terremoto e non ci hanno spiegato che l'Abruzzo, come una parte consistente del Paese, soprattutto nel centro-sud, è seduto su un letto di cemento impastato con sabbia di mare. Imbracato da un'anima di ferro che il sale di quella sabbia si è mangiato con il tempo, rendendolo sottile e fragile come uno stuzzicadenti.

Un portavoce di "Impregilo" (già gruppo Fiat e oggi gruppo Benetton-Gavio-Ligresti) ha spiegato ieri che quella che è oggi tra le principali imprese di costruzione del Paese (è capofila per la costruzione per il ponte sullo stretto di Messina) si aggiudicò è vero nel 1991 la gara per la messa in funzione dell'ospedale San Salvatore dell'Aquila, ma è "estranea alla realizzazione delle opere di cemento armato". Che non fu lei, ma "altri, nei primi anni '80", ad impastare il calcestruzzo di quello che, dall'alba di lunedì, è il simbolo accartocciato della vergogna. Ma, evidentemente, c'è di più del San Salvatore nella catastrofe abruzzese.

Racconta oggi Paolo Clemente, ingegnere della task force Enea-Protezione civile al lavoro tra le macerie dell'Aquila, che gli edifici di nuova costruzione - e per "nuova" è da intendersi fino a trent'anni - sono implosi tutti allo stesso modo. Si sono prima "seduti" sulle proprie fondamenta per poi accartocciarsi al suolo sotto il proprio peso. Di più. "Per quello che è stato sin qui possibile vedere attraverso la ricognizione tra le macerie - spiega - il collasso dei piani bassi è stato prodotto dallo schianto dei pilastri in cemento". Perché? Paolo Buzzetti, presidente dell'Associazione nazionale costruttori edili (Ance), è persona seria. E la mette così. "Se parliamo di sollecitazioni di grado e accelerazione pari a quelle registrate all'Aquila, il cemento armato, se fatto a regola d'arte, deve reggere. Non si discute". Dunque, non è neppure un problema di rispetto di norme antisismiche. È un problema di cemento. Paolo Clemente è d'accordo. "Purtroppo è così - dice - Quel cemento non era di qualità". Incapace di assorbire e disperdere energia, si è sfarinato come pasta frolla non appena investito da una forza di accelerazione che - spiegano gli addetti - è stata, domenica notte, tutt'altro che irresistibile.

"Un buon cemento - dice l'ingegnere Alessandro Martelli, responsabile della sezione Prevenzione Rischi Naturali dell'Enea, professore di Scienza delle costruzioni in zona sismica all'università di Ferrara - deve essere in grado di sostenere un carico che oscilli almeno tra i 250 e i 300 chilogrammi per centimetro quadrato. Questa è la regola che dovrebbe valere anche per edifici non proprio recenti. Diciamo dal '70 in poi".

Non è sempre così. Anzi, molto spesso non è così. Qualche nome. Qualche luogo. Nel 2003, dopo il terremoto che nell'anno precedente ha devastato Molise, diverse regioni e comuni italiani sottopongono a verifiche statiche gli edifici scolastici. In Molise, il cemento del liceo "Romita" di Campobasso non regge più di 46 chilogrammi per centimetro quadrato (è sei volte sotto la norma). In Sicilia, a Collesano, nell'entroterra di Cefalù, i pilastri della scuola superiore non vanno oltre i 68 chilogrammi per centimetro quadrato. L'asilo, i 12 chilogrammi per centimetro quadro.

Il cemento - ricorda oggi chi condusse l'ispezione - si bucava con la semplice pressione dell'indice. Ciò che restava della sua anima di ferro era uno sfilaccio rugginoso e corroso.Cosa aveva messo in quel cemento chi aveva giocato con le impastatrici e le vite degli altri? E cosa hanno messo in questi anni nel cemento delle nostre case, delle nostre scuole, dei nostri uffici? E quanto ci hanno guadagnato? Paolo Clemente risponde da ingegnere, con la rassegnazione di chi, purtroppo, sembra sveli un segreto di Pulcinella. "Normalmente, i cattivi costruttori utilizzano sabbia di mare. Costa niente, rispetto alla sabbia da cava. Il problema è che, oltre alle molte impurità, è piena di cloruro di sodio. E quei cloruri, con il tempo, si mangiano il ferro. I margini di guadagno sono alti. Diciamo che fatto 100 il costo della costruzione, chi gioca con la qualità del cemento arriva a guadagnare fino a 50, 60. Chi costruisce a regola d'arte è al 30".

Paolo Buzzetti, mercoledì sarà all'Aquila con una propria commissione tecnica dell'Ance. L'associazione, oltre ad essersi offerta per la ricostruzione della Casa dello Studente, promette un'accelerazione: "Io non amo i processi sommari. Ma deve essere chiaro che non vogliamo difendere tutti. Che chi ha sbagliato, pagherà. Perché per questi signori non c'è spazio nell'Associazione. Chiederemo che venga reintrodotta una figura di controllo che accompagni la costruzione di un edificio dall'inizio alla fine. Evitando che i subappalti, da strumento necessario di duttilità, diventino il ricettacolo di furbizie e illegalità. Ma ci batteremo anche perché il Paese esca dalla logica del ribasso. Quella che spinge molti, pur di stare nel mercato, a costruire a prezzi impossibili. Ad abdicare alla qualità e alla sicurezza".

Pilastri marci e acciaio liscio. Viaggio nel palazzo della morte
di ATTILIO BOLZONI
Uno è ancora in piedi, l'altro è polvere. In uno si sono salvati tutti, nell'altro ne hanno tirati fuori ventinove: ventisei morti e tre vivi. Erano apparentemente attaccati, due palazzi gemelli. Il primo ha qualche crepa, il secondo è avvolto da un fumo di calcinacci che segna i confini del luogo più fatale dell'Abruzzo terremotato. Via Campo di Fossa numero 6 b, eccolo il piccolo grande cimitero della città dell'Aquila. Il terreno è in pendenza, pericolosamente in pendenza. Qui hanno costruito sulle montagne russe. Dal giardino pubblico sono sessantacinque scalini a scendere, poi soltanto le pietre che hanno restituito quei corpi. Un salto e un palazzo, un altro salto e un altro palazzo. Da fuori sembrava un edificio solido quello che non c'è più, ben piantato nel suolo. Ma nel suo ventre c'era forse terra marcia, era appoggiato su una roccia troppo dura o troppo fragile. È quello che i tecnici definiscono "terreno incoerente", significa che un crollo non è malasorte ma probabilità.
Il palazzo di via Campo di Fossa numero 6 b non si è sfarinato sotto i colpi del terremoto: si è abbattuto su se stesso. Aveva sei piani, ventiquattro appartamenti, due scale, un terrazzo. Aveva la stessa forma a elle dell'altro accanto, lo stesso colore marroncino, le ringhiere dei balconi colorate di azzurro pastello anche quelle. Dicono che anche questo era fatto di cemento armato. Ma quale cemento? E armato come? Dalle macerie affiorano "staffe" metalliche in fila sui pilastri, mezzo metro lontane una dall'altra. Ci sono ferri lisci che non sembrano ferri. Ci sono piloni portanti che erano posati quasi per caso sopra o sotto altri piloni portanti
"Guarda qua", indica l'assessore comunale ai Lavori pubblici Ermanno Lisi che ci accompagna nelle viscere della sciagura. Qua, dove ci sono i resti, c'è la soluzione del mistero di un palazzo che aveva una tara dentro. Ci abitavano in settantacinque, più di un terzo di loro sono dentro le bare allineate in un hangar che è diventata la morgue dell'Abruzzo.
Cemento? Armato? "O hanno sbagliato i calcoli nella progettazione o hanno costruito male la struttura in un'area insicura, una terza ipotesi non c'è e non ci può essere: l'altro palazzo non è venuto giù e questo invece sì", spiega l'architetto Antonio Perrotti, dirigente generale dell'assessorato Territorio e Ambiente della Regione. Parla di travi che probabilmente non stavano alla distanza giusta, di pilastri "da 30 centimetri per 60 e non da 80 centimetri per 80", di fondamenta molli. E sempre in discesa. "Questa è una zona morfologicamente disgraziata", ripete il funzionario regionale ricordando come hanno scelto di far crescere la città dell'Aquila alla fine degli Anni Sessanta.
Fuori dalle mura antiche c'erano solo orti, sotto c'era il fiume. E proprio lì hanno costruito e costruito e ancora costruito. Proprio dove passa la faglia.
Una delle cause di questa tragedia può ricercarsi nell'errata valutazione di quella che gli esperti chiamano la "giacimentologia", ovvero la natura del terreno dove la città nuova doveva sorgere. L'hanno progettata nel posto sbagliato. Nel posto più infame è capitato il palazzo dove in ventisei sono rimasti schiacciati o soffocati... Il piano regolatore dell'Aquila è stato elaborato nel 1972 e approvato sette anni dopo, alla fine del 1979.
E hanno cominciato subito a tirare su questi palazzi. In via Campo di Fossa e più in alto, in via XX Settembre. Gli appaltatori erano sempre gli stessi, poco meno di una mezza dozzina. I Barattelli, gli Irti, i Martella, i Tiberi, appena qualche anno dopo anche gli Ianni. Come hanno edificato quella nuova città? "Alcuni bene e altri no", risponde l'architetto della Regione che per la sua "fissazione" sulle regole urbanistiche è stato spostato qualche mese fa in un ufficio regionale che fa contabilità di routine. Un piano regolatore vecchio trentasette anni e spazzato via in meno di venti secondi. Una scossa di terremoto che ha scoperto gli abbagli di pianificazione urbanistica degli amministratori.
Di sicuro lì, fra via Campo di Fossa e via Pasquale Paoli e via Vincenzo De Bartolomeis, non dovevano innalzare palazzi ma continuare a coltivare pomodori e patate. "Valutare le scelte di allora con il senno del poi è difficile, ma adesso il piano regolatore non l'abbiamo più e siamo costretti a ridisegnare tutta la città", racconta l'assessore ai Lavori Pubblici mentre si aggira in questa grande tomba a cielo aperto.
Cemento armato. È una parola magica che spiega tutto e spiega niente. Bisogna scoprirlo che cos'è quel cemento armato che è servito a innalzare il palazzo di cartapesta di via Campo di Fossa numero 6 b. C'era più malta nei suoi pilastri o c'era più ghiaia o c'era più sabbia? E come li hanno rinforzati quei pilastri? "Dopo un esame di tutti i materiali si capirà come e perché il terremoto ha travolto certi palazzi in certi quartieri e ha lasciato altri intatti", prevede l'architetto Perrotti. Le macerie dell'Aquila saranno i corpi di reato di questa tragedia.

9 aprile 2009

Il tam-tam inascoltato


Su un sito de L'Aquila, le ultime ore prima del disastro

di Daniela Amenta
«Speriamo che le scosse finiscano, e che non ne faccia una... veramente forte...». Il messaggio è di Carlo, datato 3 aprile, ore 14.31. Carlo, Selene, Bastian Contrario, Roby, Re Mida, Farfalla.... I soprannomi di sessantasei utenti collegati sul forum de "Ilcapoluogo.com", il giornale on line de L’Aquila. Ne parlavano da giorni, da mesi di quei sussulti della terra. Condividevano sul Web le loro paura, quell’ansia che toglieva il fiato. «Tutte le scossette fino ad oggi» è il titolo del post, l’argomento di discussione.

Dal 26 marzo ben 26 scosse, di magnitudo compresa tra il secondo e il terzo grado. Ne parlavano assieme Roby, Farfalla e gli altri. Tre aprile, l’ultimo dibattito in Rete sulle "scosse". Anzi, le "scasse", a riderci un po’ su, le "scasse" che rompono e non fanno dormire. Costretti a condividere le giornate con quei tremolii, quei battiti, i lampadari ad oscillare. Lo raccontava Selene: «Ormai a casa si fa un gioco, chi ci azzecca a indovinare l’intensità. E poi segniamo i punti... Io ormai salto al minimo movimento e non sono la sola avverto tensione dappertutto. Capisco che bisogna tenere la testa sulle spalle essere calmi e razionali e quant’altro ma quando appena hai aperto gli occhi come questa mattina e ti senti l’ormai familiare rollio ti si drizzano i capelli .........un bel buongiorno non c’è che dire!». Buongiorno, appunto. Carlo, Selene, Farfalla. Chissà dove sono, ora.

Buongiorno. Svegliarsi e precipitarsi sul sito dell’Istituto nazionale di geofisica, l’Ingv, per scoprire quanti sussulti quella notte, quanti brontolii della terra. Da mesi così, senza che l’allarme scattasse per davvero, senza che arrivasse un piano di evacuazione come si fa in Irpinia o nel Vesuviano. Nulla, silenzio. Solo i tonfi sordi del cuore per una "scassa" più pesante delle altre, una crepa sul soffitto. Lasciati soli, Roby, Carlo e gli altri quando era evidente l’allarme. Una catastrofe annunciata e inascoltata. «Speriamo che finiscano al più presto perché non possiamo avere una palpitazione ad ogni rumore! Stamattina si è sentito proprio bene! La messa del vescovo non è stata molto efficace!». Nevebianca ci scherzava. Gli altri della comunità un po’ a sdrammatizzare, un po’ a confortarsi l’un l’altro («L’Aquila è una città sismica, si sa»), un po’ a studiare da «geologi fai da te» discutendo di scala Richter e di magnitudo. Però le “scasse” continuavano.

Quel tre aprile, 48 ore prima la tragedia, l’aria doveva essere più pesante del solito. Così Lilli a un certo punto scrive: «Dopo le due “trettecate” di stamani ho telefonato all’ufficio del sindaco per suggerire la chiusura anticipata delle scuole per la vacanze pasquali. Mi è stato risposto che il ns sindaco era già in riunione per valutare la cosa dato che altre persone avevano chiamato e fatto la stessa richiesta. Così chi ha da partì, parta per rinfrancarsi la mente ed il cuore, mi dispiace per chi deve rimanere!!!».

Partire. Ce l’avrà fatta Lilli a partire? E gli altri? Tre aprile. Felix chiede alla community: «Ragazzi, ma gli esperti non parlano? C’è un numero verde di emergenza o qualcosa di simile?». L’avevano capito loro, Roby, Carlo e Selene, la “banda” del Capoluogo, che non c’era da scherzare. Che le “scasse” insistevano, si moltiplicavano. L’avevano capito, lo sapevano. «Resistere, resistere, resistere», scrivevano sul forum. Resistevano a loro modo, facendosi coraggio da un computer all’altro.

Quattro aprile. Un giorno di quiete. «Oggi neanche una scossetta». E le faccine degli smile a commentare finalmente la buona notizia. Evviva. La terra daccapo dormiente, al suo posto, tutta tonda e compatta. Cinque aprile. Alle 23.49 Patty lancia il primo allarme: «Mamma mia che scoppola». Replica tre minuti dopo Njamh: «Madonna che botto. E non finiva mai!!!».

Prometeus scrive poco dopo, a mezzanotte: «...Infatti mi preoccupavo della calma apparente....meglio le scossette continue che ’ste scariche violente». È l’ultimo commento. Tre ore e trentadue minuti prima del boato. Poi, solo macerie, morte. Rabbia.