Era un rito di antica data. La festa popolare festeggiava la primavera ma s’imponeva anche come un sentimento d’appartenenza, riscattando il senso di piccola società, rassicurando l’identità degli abitanti del paese. Nel centro della piazza, circondata dalla musica e degli odori di mandorle tostate, una mongolfiera arancione saliva e scendeva mostrando dall’alto le meraviglie del paesaggio a chi pagava le poche monete del corto viaggio. Sotto un tendone a righe bianche e rosse, si preparava la pista da ballo per la sera; mentre vicino alle imponenti griglie, una marea di gente lottava per ottenere un piatto di carne e patate. Qui, tutti si conoscevano da secoli e, nonostante i pettegolezzi, si sapeva bene chi era chi. Qui, una volta l’anno, le persone si mettevano in mostra e guardavano gli altri; esibivano come potevano le loro virtù e cercavano di nascondere inutilmente le proprie bassezze.
Un lungo sentiero portava ai prati vicini che, come un enorme e vasto palcoscenico, si alzavano sulle scogliere a sessanta metri sul mare blu. Qui venivano le famiglie e gli innamorati a fare picnic. La sagra restava dietro le basse colline ma i suoi profumi ed i suoi rumori attraversavano l’aria dando alla gente un punto di riferimento. La musica lontana di una vecchia fisarmonica, ovattata dalla brezza primaverile, formava parte della scenografia di quella domenica luminosa. Anche il cupo russare delle onde che si frantumavano fra le rocce laggiù contribuiva alla creazione di quell’atmosfera particolare. Tutti quei rumori, quelle risate, quelle urla di bambini che si rincorrevano, formavano paradossalmente un silenzio perfetto sotto quel cielo senza nuvole, di un azzurro trasparente, rotto appena da qualche gabbiano bianco che planava, giocando solitario, nelle correnti d’aria.
Accompagnando quest’armonia perfetta, i gruppetti si erano dispersi qua e là fra le ondulazioni del terreno, vicini alle tovaglie colorate, rosse, celesti, a quadri, dispiegate sull’erba verde smeraldo mettendo in bella mostra l’arte culinaria locale. Lontani dal burrone che cadeva a picco sul mare, alcuni giocavano a pallone muovendosi al rallentatore sotto il tiepido sole verticale. Altri, seduti o coricati per terra, chiacchieravano pigramente mentre mangiavano panini o bevevano lentamente il vino che portava loro il sapore della propria terra.
Repentinamente la musica, i rumori e le risate lontane cessarono; qualcosa era accaduto nella sagra. “Guardate, guardate!”, urlò un bambino nei prati, alzando il dito verso la collina. E tutti videro una cosa rotonda, enorme, di un arancione furioso, che si alzava lentamente verso il cielo come un sole. La mongolfiera, dal centro della festa, volava verso il mare. Dentro il cestone, un anziano ed un bambino facevano gesti disperati. “Si è sciolto l’ormeggio, si è sciolto l’ormeggio!”, gridava il vecchio con voce rauca, rotta dalla paura. Il bambino invece piangeva senza rumore e senza lacrime, con gli occhi spalancati ed il viso bianco. Dietro, la rincorrevano uomini e bambini urlando e tentando di afferrare due corde che pendevano dal cesto. Inciampavano nel terreno ondulato e non riuscivano proprio a prenderle. Era evidente che la mongolfiera prendeva la rotta verso l’oceano e che restava poco tempo –la scogliera era il limite preciso- per salvare gli sfortunati occupanti.
Due uomini si separarono dai gruppetti che sostavano nei prati, e cominciarono ad incitare i giovani ad unirsi alla caccia. “Andate, andate. Andate voi che siete giovani e numerosi. Prendete quelle corde!”. Gesticolavano, urlavano, a braccia aperte tentavano di organizzare il recupero. “Tutti insieme, tutti insieme! Che il vostro peso la farà arrestare!”. Nel centro del campo, quei due spingevano, chiamavano e organizzavano i movimenti. “Giovanni, vai di là! Veloce, veloce! Tu, Luigi, salta adesso! Adesso, ho detto! Vai ora!!!” I giovani saltando, correndo, a poco a poco, prendevano le funi e si arrampicavano per far posto agli altri. Ma non erano sufficienti, dovevano essere in più ad appendersi. Il loro peso, sebbene avesse rallentato la corsa verso il burrone, non la fermava del tutto e qualche volta una raffica traditrice spingeva verso l’alto la mongolfiera con tutta la sua carica umana. Qualche ondulazione del terreno, un piccolo monticello di terra, permetteva che qualcun altro raggiungesse una corda e si unisse allo sforzo comune.
Una decina di ragazzi appesi alle funi formava un grappolo umano che faceva inutilmente forza per far toccare terra a quel pallone immenso. La mongolfiera sembrò arrestare la sua marcia verso il nulla e a poco a poco, molto lentamente, cominciò a scendere. Mancavano appena una cinquantina di metri per arrivare al bordo della scogliera. Un padre, spaventato dal pericolo imminente, urlò a suo figlio: “Giorgio, molla! Molla, per Bacco! Che ti perdi!” E Giorgio mollò, trascinando nella caduta un altro compagno. Caddero rotolando per terra mentre la mongolfiera, dando uno strattone, salì per qualche metro. Le donne nascosero il viso nei petti degli uomini, le mamme e le fidanzate cominciarono a gesticolare e ad imprecare. Un altro ragazzo fece un calcolo veloce dell’altezza e della distanza che mancava e, senza pensarci troppo, aprì le mani e si lasciò cadere. Il vecchio dentro il cesto, disperatamente implorava: “Non mollate, non mollate! Venite tutti, per favore. Venite, venite! Venite tutti! In nome del bambino, venite!” Ma di tutti quelli che guardavano l’evento, nessuno fece un passo in avanti, nessuno fece un gesto. Pietrificati sui prati verdi, illuminati dal sole primaverile, guardavano lo spettacolo meraviglioso di quella sfera arancione sullo sfondo celeste, dove le persone coinvolte sembravano dei burattini che si muovevano come comparse di un teatrino di provincia, recitando qualche tragedia d’antica memoria.
Qualche metro più in là si apriva il punto di non ritorno. Qualcuno avrà calcolato l’inutilità dello sforzo, qualcuno avrà avuto paura, qualcuno non avrà avuto la forza necessaria nelle mani per resistere al proprio peso, perché uno ad uno cominciarono a mollare la presa saltando a terra. La mongolfiera diede un balzo e si alzò con una certa velocità. Soltanto un giovane restò aggrappato alla fune tentando di salire verso il canestro. Fu evidente che voleva arrivare lassù per dare una mano. Non mollava ed urlava imprecazioni contro quelli di sotto “Disgraziati! Vigliacchi! Avvertite la guardia costiera. Correte!” Guardava in alto e con voce tenera diceva al vecchio ed al bambino: “State tranquilli. Arrivo e sgonfieremo il pallone. Già verranno a salvarci. State tranquilli”. La mongolfiera attraversò il limite della scogliera e come se ricevesse nuova vita, si alzò parecchio facendosi piccola nel firmamento, ormai in un viaggio senza ritorno.
Dai prati nessuno si era mosso. Guardando in alto, seguivano le peripezie di quell’oggetto strano alla natura umana che vinceva la forza di gravità. Dopo qualche minuto videro che il ragazzo non ce la faceva a salire. Gli sforzi del vecchio per issarlo furono insufficienti ed era rimasto fermo a metà strada. Da terra lo vedevano come un puntino nero sopra l’orizzonte. “Non ce la farà mai” disse qualcuno. “Ma che scemo. Doveva mollare quando era ancora in tempo” disse un altro. Tutto il paese guardava aspettando la fine che si prevedeva vicina.
Ad un tratto, quel puntino nero cominciò a muoversi stranamente. Lo si vedeva come un moscerino che si dibatteva in una ragnatela. Per un attimo restò immobile nell’aria, poi cadde verticalmente e scomparve nel mare. Le persone restarono ancora qualche minuto a vedere la mongolfiera scomparire nell’infinito; qualcuno restò tentando d’intravedere vicino all’orizzonte la macchia arancione.
Nelle bancarelle della sagra, immersi in quella luce fantasma che costruiscono certi tramonti magici, tra un bicchiere ed un altro, coi volti cupi, non c’era persona che non parlasse dell’accaduto. La vecchia fisarmonica suonava quasi a malavoglia antichi brani usurati dal tempo. Nel centro della piazza si alzava ancora, come una sacra rovina, la piattaforma deserta della mongolfiera. Una ragazza, seduta a cavalcioni su una panca di legno, rimproverava un suo amico: “Perché hai mollato? Se tutti fossero stati uniti, il loro peso avrebbe arrestato la corsa del pallone. Forse si sarebbero salvati. In questo paese sono tutti dei codardi”. Il ragazzo era imbarazzato e discuteva facendo grandi gesti con le braccia: “Tu non sei stata lassù. Non puoi venire a dirmi questo. Ho visto il bordo così vicino che mi sono reso conto che non c’era niente da fare. Per questo ho mollato. Inoltre, se il gruppo non aiuta, non ha molto senso continuare. Non ti pare?”--rispose il ragazzo. Un terzo, un po’ in disparte dopo qualche minuto si allontanò da loro con evidente disgusto. Un uomo gli domandò cosa succedesse e lui rispose: “Che ne so! E’ come impazzita. Ce l’ha con tutti noi. Dice che siamo rimasti solo a guardare. Mi ha dato del vigliacco. Era troppo pericoloso, no?. Si capiva subito che sarebbe stato uno sforzo inutile. Non sono mica scemo io. Vedi com’è andata a finire”.
“Anch’io sono rimasto a guardare” --disse allora l’uomo. “Dai, vieni, son cose che succedono; non dare troppa importanza. Lei è una che giudica senza tener conto che tutti noi abbiamo dei limiti. E forse è vero che i nostri sono troppo stretti, chi lo può dire? Ognuno di noi sa quanto può tenere per sé e quanto può dare agli altri”. Dopo qualche secondo, con un sospiro, aggiunse: “Già le passerà; tra poco dimenticherà. Come tutti noi, del resto… E se non lo farà, resterà sola a difendere cause perse”.
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